07 novembre 2016
“Anch’io temo Grillo, ma la sua squadra è modesta”. L’ex presidente del Senato forzista e l’analisi sul referendum
Intervista a Marcello Pera a cura di Paolo Emilio Russo.
Presidente Marcello Pera, cosa c’entra lei, un filosofo già presidente del Senato, che ha un curriculum accademico e politico lungo come la “Divina Commedia”, con gli “hashtag” di Matteo Renzi, coi “gufi” ed il “ciaone”? (…)
(…) “Mi accomuna il “sì” alla riforma costituzionale che porta la firma sua e di Maria Elena Boschi. Ho espresso una valutazione positiva su quel testo, tutto lì.
Il fatto che questa proposta di riforma l’abbia presentata il Pd non la imbarazza un liberale come lei?
Non troppo, a dire la verità. Anche perché quando fu votata in Parlamento era stata sostenuta da 70 senatori non Pd su 180. Non è una riforma del Pd, o, almeno non è la riforma solo del Pd, infatti Forza Italia l’ha votata due volte.
Quando il centrodestra approvò la sua riforma, nel 2006, il centrosinistra fece campagna per il “No” e vinse il referendum. Lei si trovava “di là”, fu tra gli sconfitti. Non ha avuto la tentazione di rendere – come si dice – “pan per focaccia”?
Proprio no. Qui c’è in ballo la pelle dell’Italia, non si può scherzare. La riforma contiene punti qualificanti, cose che servono all’Italia per andare avanti, dunque è giusto sostenerla a prescindere dai nomi dei promotori.
Qualcuno sostiene che questo referendum serve soprattutto al premier per rimanere dov’è, che non è mai stato votato presidente del Consiglio…
Può darsi che all’inizio questa riforma serva a Renzi e al Pd, ma poi, dopo, servirà soprattutto al Paese, cioè pure al centrodestra.
Addirittura?
Certo, qualora dovesse tornare a governare, avrebbe strumenti più efficaci. Vogliamo avere governi forti, di legislatura, maggioranze chiare, un sistema legislativo più veloce?
Dica la verità: è meglio questa riforma o quella che scrisse e fece approvare il centrodestra, quella di Silvio Berlusconi, Umberto Bossi e Gianfranco Fini?
Quella era più incisiva, toccava un punto sul quale questa non interviene, cioè i poteri del governo. Però aveva la cosiddetta devolution perché era stata scritta nel periodo dell’ubriacatura federalista, una fase conclusa grazie al buonsenso e alla Corte costituzionale.
Facciamo un esercizio di fantasia, non difficile per un filosofo come lei. Cosa succederà il giorno dopo il referendum se dovesse vincere il “Sì”?
Ci sarebbe una iniezione di fiducia. L’Italia dimostrerebbe di avere credibilità nei confronti dell’Unione europea che ci spinge a votare “Sì”, dell’America, che fa altrettanto e manderebbe un messaggio importante ai mercati.
Queste sono le cose che dice Renzi, però.
Mi ha colpito, per esempio, che il risanamento della banca Monte dei Paschi di Siena sia stata in parte collegato all’esito di quella consultazione referendaria. Ciò significa che gli investitori sono pronti, ma aspettano di capire se il Paese è maturo.
E se dovesse vincere il “No” cosa potrebbe accadere?
Esattamente l’opposto. Ci sarà una crisi di fiducia e di credibilità, per il Paese sarebbe un problema.
Chi potrà dire di avere vinto quella partita? Cambieranno gli equilibri politici?
Quella del “No”, dal punto di vista nazionale, sarebbe la vittoria di Beppe Grillo e del M5S. Questo risultato comporterebbe e dimostrerebbe l’assoluta irrilevanza di Forza Italia.
Eppure Silvio Berlusconi ha deciso di scendere in campo per il “No”: registra messaggi, battezza iniziative, tuona contro il “rischio autoritario”. Cosa si è messo in mente, secondo lei?
Sino a ieri pensavo che stesse aspettando i sondaggi per valutare, mentre ora vedo che sta seguendo il suggerimento del dottor Gianni Letta, che è notoriamente la figura più influente di Forza Italia, pur senza essere mai sto iscritto al partito…
Ci sarebbe stata una trattativa col Pd.
… E a me pare che il presidente si stia illudendo se davvero ha chiesto in cambio della benevolenza sul referendum una legge elettorale di tipo proporzionale.
Perché si tratterebbe di una illusione, scusi? Forse pensa ad una grossa coalizione.
Perché evidentemente non sono stati fatti i calcoli o li hanno sbagliati. Se si guardano le intenzioni di voto, specie di coloro che hanno tra i 18 e i 25 anni, che votano solo alla Camera e non al Senato, il risultato è che, con una legge proporzionale, i voti del M5S, della Lega Nord di Matteo Salvini e di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, se sommati, sarebbero maggioranza.
Sta dicendo che con il proporzionale Forza Italia rischierebbe di ritrovarsi ininfluente, all’opposizione?
Almeno a Montecitorio rischia di consegnarsi a questi che le dicevo, che potrebbero bloccare qualunque iniziativa. Non mi pare saggio.
A Palazzo Grazioli, invece, si parlava di “tornare protagonisti”…
Che conti stanno facendo? È incomprensibile. A chi vogliono affidare l’Italia, a Beppe Grillo?
Su una cosa almeno siete d’accordo: anche lei, come il Cavaliere, è spaventato da Beppe Grillo e dal M5S?
Certo che sono spaventato; non vedo né un programma di governo credibile del M5S, né una classe dirigente capace di assumere responsabilità.
Luigi Di Maio dice di essere pronto per Palazzo Chigi…
Sì sì, con Alessandro Di Battista ministro degli Esteri e Paola Taverna ministro dell’Economia… È una barzelletta!
A proposito, non crede che il calo nei consensi personali del giovane premier e le ultime deludenti prove dei Cinquestelle dimostrino che esperienza e professionalità in politica andrebbero rivalutate, che il nuovismo non basta?
Certamente. È fallita quell’idea che basti essere nuovo per poter fare bene, che l’esperienza sia un male in sé.
Sarà dura per Renzi, allora.
Più per Beppe Grillo, in verità.
Come? Tutti sostengono che sia Renzi l’«erede» politico del Cavaliere. Non è così?
Il miglior allievo di Berlusconi è certamente Grillo, più di Renzi. Pensi all’antipolitica, ai toni… Il M5S si è inserito in quel filone.
Lei è la figura di maggior spicco, ma c’è un grosso pezzo della classe dirigente che è stata protagonista della stagione fortunata di Fi e del centrodestra che oggi si ritrova per il “Sì”.
Con me a fare campagna per il “Sì” ci sono Giuliano Urbani e almeno quaranta tra ex parlamentari ed ex ministri del governo che fu. Questo dovrebbe far riflettere.
Come si spiega questo “ammutinamento” rispetto alla linea del fondatore?
Questa nostra posizione si spiega con la storia originariamente riformista di Fi, che aveva fatto della riforma della Costituzione il suo primo punto programmatico. Oggi chi fa campagna per il “No” purtroppo sta rinnegando la storia di Forza Italia.
Sono molti gli elettori o ex di Fi che voteranno Sì?
Pressoché tutti quelli che incontro io. Le dirò di più: sono sconcertati e delusi dal comportamento non responsabile che Berlusconi sta tenendo nei confronti dell’Italia.
Le sembra possibile che Berlusconi possa cambiare idea sul referendum a un mese dal voto?
Non sono del tutto sicuro che non lo farà, che quella detta sia la sua ultima parola… Lui è sempre molto attento ai sondaggi. Ma se procede per questa strada non finisce né concavo né convesso, bensì piatto.
Chi vota “Sì” rischia di apparire come uno che sostiene la politica di questo esecutivo. Un liberale come lei non è critico con un governo che continua a distribuire bonus che vanno ad aumentare deficit e spesa pubblica?
Questo premier fa come tutti i presidenti del Consiglio che ci sono stati prima, niente di nuovo. L’unico a fare eccezione è stato Mario Monti, ma sappiamo che lui se lo poteva permettere perché poteva non rispondere a nessuno, se non alle cancellerie europee che lo avevano messo a Palazzo Chigi.
Renzi sta davvero scopiazzando il programma che fu di Forza Italia?
La riforma del lavoro, la riforma delle pensioni e, ovviamente, la riforma costituzionale erano punti del nostro programma, già. Magari Fi li avrebbe realizzati diversamente, ma quelli sono.
Alla Leopolda stavolta non ci sono “star”, non si sono viste personalità e sorprese. Non è che Renzi si sta normalizzando, o, peggio, via via, col passare dei mesi, si sta “democristianizzando”?
Io penso che le responsabilità che ha siano tali da costringerlo a prendere questa strada, che è un po’ più normale per il Pd, rispetto a una prima gestione più personalistica del partito.
Vedremo un Renzi più uomo di partito e meno leader, nel futuro?
Non lo so. Ma penso che si debba onestamente riconoscergli di avere provato – con un certo successo – a trasformare quello che fu il Partito comunista, che era rimasto tale anche dopo ripetuti cambi di nome, in un Partito democratico più moderno ed europeo.