Interventi

Liberali e cristiani

Roma, 11 dicembre 2004

Convegno “Liberalismo, cristianesimo e laicità” della Fondazione Magna Carta

1. La questione dell’identità

Nella sua relazione di apertura della Conferenza di Mont Pélerin del 1° aprile 1947, Friederich von Hayek, spiegando perché aveva dedicato una sessione speciale dei lavori ai rapporti fra liberalismo e Cristianesimo, disse: «Sono convinto che, se la frattura fra il vero liberalismo e le convinzioni religiose non sarà sanata, non ci sarà alcuna speranza per la rinascita delle forze liberali».

Forse pochi ricordano questo passo e pochissimi vi hanno prestato attenzione. Nella lista di quelli che lo ignoravano del tutto, il primo sono io. Il passo l’ho trovato – assieme ad altri che ho ripescato e altri ancora che ho ripensato – durante le discussioni recenti sulla cosiddetta “anima” dell’Europa, sul suo malessere spirituale, sul suo relativismo morale, sulla sua debolezza intellettuale, sulle sue incertezze e divisioni politiche. In una espressione sola, la discussione su quella che ormai si chiama la questione identitaria. I principali punti di riferimento della questione identitaria, quelli che l’hanno generata e alimentata, sono due: il dibattito sulla guerra in Iraq e sulla Costituzione europea. Ad essi se ne deve aggiungere un terzo, che è assai meno contingente degli altri e non meno importante: le discussioni in tema di bioetica. Tutti e tre questi dibattiti hanno portato alla luce questioni che, almeno in Italia, si pensavano risolte e talvolta seppellite. E hanno invece mostrato che molti nodi della nostra identità di europei e occidentali sono ancora da sciogliere. Come e perché queste occasioni abbiano segnato la rinascita della questione identitaria si può riassumere in breve. La guerra – il primo filone della questione – ha fatto nascere la domanda: perché rispondere ad un atto di terrorismo con l’invasione prima di un paese e poi di un altro, l’Afghanistan e l’Iraq? Questa prima domanda ha generato una catena. Perché il terrorismo contro di noi? Chi sono “loro” e chi siamo “noi”? Che cosa vogliono loro e vogliamo noi? A quale civiltà, cultura, tradizione, insieme di princìpi e valori appartengono loro e apparteniamo noi? Queste civiltà sono commensurabili? La nostra è migliore? Se lo è, su che basi? La nostra civiltà o cultura è legata – o, come sosteneva von Hayek, deve essere legata – alla nostra religione, in particolare il Cristianesimo? Non saprei riassumere meglio questa genesi della questione identitaria se non con le parole usate dal cardinale Camillo Ruini il 3 dicembre 2004 in occasione della celebrazione del quarantesimo del Concilio Vaticano II: «il trauma provocato da un terrorismo che si richiama ad un’altra religione, per quanto in maniera impropria e illegittima, ha stimolato, se non altro per reazione, un risveglio religioso identitario nelle nazioni di matrice storica e culturale cristiana, tra cui l’Italia, sia a livello di popolo sia in una parte significativa della “cultura laica”». Anche il secondo filone della questione identitaria – la firma della Costituzione europea – è partito da una prima domanda: se l’Europa riconosce e sancisce certi valori, in nome di che cosa lo fa? E anche qui la prima domanda ha generato una catena di altre domande. Quale patrimonio l’Europa intende difendere? Da quali fonti lo ha appreso? Come lo giustifica? Perché lo crede? Perché dovrebbe crederlo? Il terzo filone – quello bioetico – abita fra noi da tempo, se si vuole fin dall’antichità, quando Aristotele si pose esplicitamente il problema del rapporto fra saggezza morale e sapienza scientifica introducendo la nozione di ragion pratica, la phronesis, oppure dalle scoperte degli ultimi decenni in materia genetica. Qui la prima domanda è: che cosa è, come nasce, in che modi acquisisce caratteri, la vita umana? E anche qui la catena delle domande susseguenti è lunga. È lecito l’aborto? È lecita la soppressione di embrioni? È lecita la fecondazione artificiale? Quale? L’embrione è persona fin dal concepimento? Se sì, perché? Se no, quando lo diventa? La clonazione a fini terapeutici è ammissibile? E quella riproduttiva? Gli interventi sulle cellule staminali sono leciti? Con quali cellule? Fino a che punto? In quali casi? E così via. Il dibattito identitario è in corso. Lo ritengo fondamentale e vorrei che fosse perseguito con attenzione, senza diffidenze e senza sospetti. Se temo qualcosa, sono i rischi dell’occasione perduta. E siccome ce ne sono, desidero segnalarli per rifletterci sopra. Circa la guerra, il rischio potrebbe essere questo. Nel tentativo di far passare il concetto che essa sia stata di democrazia, cioè di una guerra di reazione condotta da alcune democrazie a difesa dell’Occidente, si è ricorsi alla categoria di “guerra antitotalitaria”, più precisamente di “guerra antifascista”, coniata dall’intellettuale democratico americano Paul Berman. Evidentemente la nozione di “guerra santa”, esplicitamente usata dai terroristi islamici, non bastava a riscaldare i cuori e aguzzare le menti degli occidentali. E però, se si discute di una guerra antitotalitaria, la questione identitaria si può perdere, perché la categoria negativa degli “anti” elude la questione positiva e identitaria dei “pro”: gli antitotalitari, antifascisti, anticomunisti, antinazisti, eccetera, non hanno l’obbligo di declinare in positivo le proprie generalità. E non solo la categoria negativa degli “anti” elude, essa anche confonde l’identità, come è già accaduto quando antifascisti, anticomunisti, antinazisti, eccetera, hanno potuto tutti ugualmente definirsi “democratici”. L’occasione per una riflessione sulla questione identitaria potrebbe andare perduta anche rispetto al secondo filone da cui è nata, quello della Costituzione europea. Anche qui si è ricorsi ad uno stratagemma verbale, quel «patrimonio spirituale e morale» di cui si dice nel secondo Preambolo al Trattato costituzionale o quelle «eredità culturali, religiose e umanistiche» di cui si parla nel primo. E anche qui le due categorie sono elusive e confuse. Elusive, perché un patrimonio o un’eredità spirituale, morale, religiosa, umanistica, senza altre specificazioni, determinazioni, aggettivazioni, è un aggregato indefinito, indistinto e povero. Confuse, perché un patrimonio o un’eredità siffatta non consente demarcazioni o addirittura consente di omologare gli eterogenei. Chi non può dirsi tautologicamente figlio del proprio patrimonio intellettuale o spirituale? Quanto al terzo filone, quello bioetico, l’occasione per la questione identitaria potrebbe andare perduta per pigrizia intellettuale o magari per interesse materiale, come accadrebbe se, proprio per pigrizia, ci si rinchiudesse a priori dentro categorie spurie come “bioetica laica”, “bioetica cattolica”, “bioetica liberale” o, appunto per interesse, se si piegasse la riflessione intellettuale orientata alla ricerca della verità alle esigenze, e talvolta ai capricci, di pazienti o ai vantaggi di medici, orientati invece agli interessi immediati. I rischi ci sono, e benché li tema e li segnali non credo che potranno materializzarsi. La realtà s’impone e vince la pigrizia o la furbizia. Primo, perché il risveglio islamico è indipendente dal terrorismo e resterà anche se questo finisse, e perciò resterà la domanda su chi siamo noi e loro. Secondo, perché l’integrazione multiculturale a cui l’Europa è, e sempre più sarà, chiamata farà comunque risorgere il problema della nostra identità: dentro quale cornice nostra vogliamo integrare le culture degli altri? Come ha detto ancora il cardinale Ruini: «la presenza tra noi degli immigrati, sebbene da non confondere in alcun modo col terrorismo, fa a sua volta sentire “vicina” la questione di una diversità anche religiosa e culturale, prima remota». Terzo, perché la questione bioetica è parte della più ampia questione dei limiti della razionalità scientifica e questa farà sempre nascere il problema della verità sulla nostra vita. Dunque, se la questione identitaria è destinata a rimanere, dobbiamo dibatterla e sfruttare le occasioni che la storia ci offre. Per non perderle, mi sono di recente cimentato con quattro domande, a cui ho avanzato le mie risposte. La Costituzione europea fonda una identità europea? Ho detto: no, non la fonda. Perché non la fonda? Perché, mi sono ancora detto, parla ai governi e non al popolo, e perciò alle istituzioni e non allo spirito. I credenti cristiani possono contribuire a tale fondazione? Sì, ho risposto, purché rimettano in discussione le forme storiche della propria natura confessionale. Infine, i laici possono concorrere a questa impresa? Anche qui ho risposto di sì, purché si riconoscano anch’essi credenti. È questa la ragione per cui ho proposto ai laici, soprattutto ai laici liberali, di passare dalla formula “perché non possiamo non dirci cristiani” alla formula ben più impegnativa “perché dobbiamo dirci cristiani”. La prima è la formula di Croce, che io considero figlia della ragion pigra; la seconda è la formula di Kant, che è invece figlia della ragion pratica. Con l’una non si acquisisce un’identità, se non di tipo elusivo e confuso, con l’altra ci si guarda allo specchio, si capisce da dove veniamo e si può sperare di trovare una direzione verso cui marciare. Non tornerò qui su queste questioni. Ne solleverò invece due aggiuntive e correlate: che cosa ostacola, in Italia e in Europa, una unità di intenti e di azione per la ricerca e la difesa di una comune identità, e talvolta persino un genuino confronto fra laici e credenti? Come si possono superare questi ostacoli?

2. Gli ostacoli finti

Comincio dalla prima questione. E naturalmente devo fare una precisazione, certamente non biografica, sul termine “laico”. Che, perduto il significato originario di non appartenente al clero, il termine non ne abbia più uno ben definito, lo si capisce quando lo si voglia correlare al suo opposto. L’opposto di laico è credente? No, perché i laici credono in un mucchio di cose in cui credono i credenti. L’opposto è cristiano? No, perché i laici sono cristiani in tanti sensi rilevanti. La stessa difficoltà si incontra se, anziché alle contrapposizioni, ci si rivolge ai sinonimi. Laico è sinonimo di ateo? No, certamente, perché pochi laici si impegnerebbero in una tesi così forte. È sinonimo allora di agnostico? Neppure, e comunque non completamente. Certo, laico si oppone a confessionale e a clericale. Ma questo non basta a definirlo positivamente. Si tratta di una delle tante forme indistinte della categoria degli “anti”. Per parte mia, ho avanzato questa proposta: laico è colui che non deriva la giustificazione dei suoi valori da alcuna rivelazione o teologia, cioè uno che considera i valori come imperativi morali, ma non come comandamenti divini. Se il laico viene contrapposto al credente è solo per questo: per la genealogia dei valori, non per il loro contenuto. I contenuti, spesso o quasi sempre, sono gli stessi. Kant ne è un chiaro esempio: la seconda formula del suo imperativo categorico può essere considerata la traduzione laica della regola aurea cristiana. Considerazioni come queste si dovrebbero tener presenti soprattutto nelle discussioni di bioetica dove sovente si sente contrapporre una bioetica laica ad una bioetica cristiana. Allorché si dice: “sono a favore dell’aborto perché sono laico”, ciò che risuona è una sciocchezza: si può essere a favore dell’aborto, ma il solo essere laico – nel senso precisato – non basta a giustificare questa posizione. Il ragionamento è più lungo e più complesso. Quei laici che invece lo fanno corto e semplice finiscono col correre, inciampare e cadere. Vengo allora al punto. Che cosa ostacola laici e cristiani, soprattutto laici liberali e cristiani, dal trovare insieme una comune identità? Alcuni ostacoli, talvolta addotti esplicitamente, mi sembrano finti. Ne cito tre. Il primo ostacolo, si dice, è che i laici hanno valori propri, diversi da quelli cristiani. Ho già detto che questa distinzione è inaccettabile, ma senza indulgere nella filosofia allego una prova politica. Nessuno negherebbe che la Costituzione europea sia laica. Eppure il primo articolo della parte seconda, la Carta dei diritti, dice così: «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata». La spiegazione dice: «la dignità della persona umana fa parte della sostanza stessa dei diritti sanciti nella Carta». E il Preambolo alla Carta dice: «l’Unione […] pone la persona al centro della sua azione». C’è qualcuno che dubita che i concetti di persona e dignità umana abbiano radice, matrice, ispirazione, cristiana? No. Dunque, la Carta laica comincia con comandamenti cristiani. E dunque non è vero che i valori degli uni, i laici, sono diversi da quelli degli altri, i cristiani. Ma se è così, allora non c’è ostacolo a che si riconosca esplicitamente che le nostre radici sono cristiane, anche se, ovviamente, non solo cristiane. Basta ricordare il ruolo di alcuni comandamenti mosaici nelle legislazioni positive degli stati per rendercene conto, e riflettere che le violazioni di tali comandamenti, trasformati in norme giuridiche, sono sanzionate dai nostri codici penali. Secondo ostacolo addotto. Si dice che i laici sono critici, disposti a mettere in discussione tutto, mentre i cristiani sono dogmatici. La ritengo una distinzione sbagliata per varie ragioni. Intanto, “critico” è diverso da “senza fondamenti” e dogmatico è diverso da “refrattario alle interpretazioni”. Come il critico, per criticare, ha bisogno di un punto di appoggio considerato fermo, ad esempio l’idea della ragione come strumento della critica, così il dogmatico, per credere, ha bisogno di confrontarsi con l’evoluzione della realtà. Dipingere l’uno, il critico, come uno che si interroga sempre e l’altro, il credente, come uno che non si confronta mai è una caricatura che sbeffeggia entrambi. Inoltre, “critico” non è lo stesso che “aperto a tutte le conquiste della conoscenza”, e dogmatico non è lo stesso che chiuso a tutte. Nessun critico serio accetterebbe quella formula “factum et bonum convertuntur” che, dietro le pressioni dei loro pazienti, sembra ispirare alcuni ginecologi laici. E nessun credente autentico si legherebbe all’idea che ogni novità scientifica è un fuoco rubato al suo Dio, e dunque un peccato. Piuttosto, gli uni come gli altri si riservano, di volta in volta, di ragionare e valutare il tipo di novità. Infine, non è vero che “critico” sia uguale a “dubbioso” e dogmatico uguale a “certo”. Il critico è certo almeno della sua critica, il dogmatico può dubitare almeno dell’efficacia del suo dogma. Insomma, l’idea che i laici siano critici e i credenti dogmatici è anch’essa un ostacolo finto al reciproco riconoscimento delle comuni radici: con un po’ di riflessione e quel tanto di buona volontà che è alla base di ogni dialogo, si può abbattere o abbassare. Vediamo se sia più solido il terzo ostacolo che più spesso si adduce contro l’impresa della ricerca della comune identità. È l’idea che i laici, parlo sempre di laici liberali, non siano credenti. Ho già detto che questa contrapposizione è filosoficamente spuria. Forse il laico non crede in Qualcuno, ma certamente crede a qualcosa. E anche storicamente la contrapposizione è assai artefatta, perché a cominciare da John Locke, il padre del liberalismo, passando per Kant, arrivando alla Scuola austriaca e proseguendo oltre, ben pochi classici liberali, compreso John Stuart Mill, si trovano che abbiano assunto posizioni antireligiose e anticristiane. È vero piuttosto il contrario: è vero che i liberali hanno legato il loro credo sul primato dell’individuo e sui limiti del potere ad un fondamento religioso prevalentemente cristiano. Conclusione sul punto: ostacoli come questi sono più gabbie di pigrizia che reali difficoltà. Si può andare avanti. Se si vuole, naturalmente. E io credo che si debba.

3. Gli ostacoli veri

Che cos’è allora che realmente fa difficoltà? Qual è l’ostacolo vero? Lo dico in una parola: è la nostra storia, il nostro passato. Questo, sì, è un ostacolo serio. Per comprenderlo, bisogna ritornare alla classica distinzione di von Hayek circa i due liberalismi, quello «vero», anglosassone, e quello «falso», continentale, che solo per carità di ricostruzione storica e non senza ambiguità si può chiamare ancora “liberalismo”. È noto che la storia del Continente è andata diversamente dalla storia dell’isola e poi dell’America. Qui, sul Continente, dove pure non sono mancati tanti liberali «veri», intellettuali e politici, la storia ha trasformato tanti liberali in democratici e poi tanti democratici in comunisti, tanti liberali in fascisti, e tanti fascisti in comunisti. La storia ha analogamente trasformato tanti cattolici in antiliberali, costruttivisti, socialisti. E ha trasformato la stessa Chiesa cattolica. È accaduto così che, mentre nel mondo anglosassone, il Cristianesimo, mediante le chiese nazionali e le chiese libere, ha innervato la società civile, sul Continente esso ha potenziato le gerarchie. Mentre nell’un caso si è rivolto agli uomini, nell’altro si è indirizzato alle istituzioni. Da qui sono nati due fenomeni speculari: il potere temporale della Chiesa e l’anticlericalismo dei laici e liberali. Il caso italiano mi sembra emblematico. Quando la nazione diventa Stato col Risorgimento, la Chiesa cattolica gli oppone il non expedit. Quando nasce la modernità, la Chiesa cattolica le contrappone il Sillabo. Quando nasce il fascismo, la gerarchia cattolica si allea e produce il Concordato. E quando nasce la Repubblica, mentre la tradizione liberale si spenge, la Chiesa cattolica stringe ancora un Concordato con l’art. 7 della Costituzione. È così che sono nati i muri, le diffidenze, le incomprensioni, le contrapposizioni. La loro origine è comprensibile: se la Chiesa è temporale, il liberale è anticlericale. E viceversa, naturalmente: se il liberale diventa laicista, la Chiesa diventa sempre più confessionale. È per queste vie storiche esterne, ancorché decisive, e non per vie filosofiche, culturali, religiose intrinseche, che liberali e credenti cristiani si sono trovati contrapposti. Gli uni e gli altri sono restati senza parola comune, perché le rispettive istituzioni politiche da un lato e ecclesiastiche dall’altro si scontravano fra loro, oppure si parlavano e si accomodavano da sé sole, sopra la loro testa. Essendosi ciascuno trovato chiuso in un recinto, non solo hanno entrambi perduto il senso della comune appartenenza, hanno anche teorizzato una supposta natura peculiare del proprio spazio e le ragioni della propria presunta diversità. In un contesto storico siffatto, essere anticlericali diventa un obbligo se la Chiesa è temporale, ed essere antiliberali diventa un dovere se i liberali sono laicisti. In altri paesi sempre del Continente, la storia ha preso pieghe diverse, ma talvolta con lo stesso effetto. Mentre la Gloriosa rivoluzione inglese produceva il liberalismo vero, la Rivoluzione francese alimentava quello falso. La Dea Ragione è finita per non servire più princìpi che pure largamente erano di matrice religiosa cristiana; è finita per sostituire una religione con un’altra, il laicismo della Repubblica contro il Cristianesimo della società. Gli esiti di questa storia sono sotto i nostri occhi. Il guaio, ma anche la nostra fortuna, è che essa, per giudizio sempre più diffuso, non funziona più neppure per risolvere quei problemi che la giustificavano, la separazione Stato-Chiesa in Francia, l’analoga separazione e la pacifica convivenza religiosa in Italia. L’immigrazione, la competizione religiosa, il multiculturalismo stanno spazzando via non i problemi, ma le soluzioni che di questi problemi la nostra storia ci ha offerto negli ultimi due secoli. Quando la Commissione Stasi proibisce il velo alle ragazze musulmane, non viola solo princìpi liberali imponendo di fatto una religione di Stato, ma anche provoca una crepa nella vecchia formulazione della separazione fra Stato e religione. E quando presidi e maestre italiane si arrendono a togliere i crocefissi dalle scuole, a correggere i canti natalizi, a istituire classi separate per religioni diverse, mostrano anch’essi che i vecchi obiettivi della tolleranza, di fronte a fenomeni nuovi, non si possono più raggiungere con gli strumenti di un tempo. Qui è il vero, serio, ostacolo all’impresa della ricerca di una comune identità. La tradizione, il modo storico con cui gli uni sono diventati laici e gli altri fedeli o devoti o seguaci, ostacola il reciproco riconoscimento e solleva diffidenza reciproca. Liberali laici e cristiani credenti sono oggi come due fratelli separati, che un giorno, per serie ragioni contingenti, hanno litigato e continuano a restare separati anche se quelle contingenze sono scomparse ed essi quasi non se ne ricordano più. Sì che, sempre vivendo separati, non si ricordano neppure che un giorno, assai prima dei loro litigi, sono venuti al mondo allevati dagli stessi genitori. Ecco allora il laico liberale che fa fatica a riconoscersi cristiano e il cristiano credente che stenta a riconoscere quanto ha dato e ricevuto dal laico. Passata la stagione calda dell’ostilità, sul campo sono restate diffidenze e incomprensioni. Una gabbia, anzi due, soffocanti entrambe.

4. Senza diffidenza

Factum infectum fieri nequit, la storia non si può cambiare. E però le gabbie si possono e si devono rompere. Perché?

Perché il risveglio identitario oggi cambia le cose. È anch’esso una contingenza, ma va, o dovrebbe andare, nel senso opposto a quelle di prima. E non solo nel senso di un’alleanza temporanea contro l’odierno avversario comune. Se così fosse, si produrrebbe un altro “anti” e accadrebbe che, dopo, la vita culturale e politica tornerebbe come prima, con le gabbie e le ostilità di prima. No, la contingenza del terrorismo islamico, della guerra santa, del risveglio dell’Islam, dell’immigrazione, della Costituzione europea, della bioetica, dovrebbe questa volta indirizzare nel senso di un’alleanza culturale e politica duratura e non provvisoria, stabile e non passeggera, profonda e non superficiale. Come se il fratello riconoscesse finalmente il fratello e entrambi recassero omaggio ai genitori.

Questa di una marcia di avvicinamento non è per me una speranza o un mero auspicio. Come la vedo io, è già un fenomeno – timido, incoato, incerto fin che si vuole – e però in corso. L’Europa non è tutta quella che vogliono i suoi capi di stato e di governo. In giro non ci sono solo retorica vacua e strizzate d’occhio. Sta a noi, al nostro impegno, cogliere i fermenti e farli diventare un evento della politica e della storia.

Lo so, c’è diffidenza, da una parte e dall’altra, c’è reciproco sospetto.

Per il campo cattolico, mi servo ancora delle parole del cardinale Ruini: «All’interno della Chiesa e della “cultura cattolica”, di fronte a questa forma di riscoperta dell’identità cristiana si registrano sensibilità e valutazioni differenziate: è frequente la denuncia dei rischi, certamente reali, che essa venga strumentalizzata e porti a uno snaturamento della fede autentica, a una sua riduzione a ideologia». E però lo stesso Cardinale ha aggiunto che «non sempre vengono percepite le opportunità che essa [la riscoperta dell’identità cristiana] offre e le sfide che essa implica». E ha concluso, con una scelta assai coraggiosa: «Se però teniamo presente che la fede cristiana stessa, fin dalle sue origini, si rivolge certamente anzitutto al cuore e alla coscienza dell’uomo, ma ha anche una ineliminabile dimensione pubblica, l’atteggiamento più congeniale all’indole e alla missione del Cristianesimo, oltre che meglio conforme alle necessità attuali dell’Italia, come dell’Europa e dell’intero Occidente, sembra piuttosto quello di rispondere positivamente alle richieste, implicite nel risveglio identitario, che la fede cristiana possa alimentare, in un’ottica non confessionale, ossia pienamente rispettosa della libertà religiosa e della distinzione tra Chiesa e Stato, una visione della vita e alcuni fondamentali valori etici che forniscano la base dell’identità delle nostre nazioni: si ha così, tendenzialmente, il superamento della fase storica del laicismo e del secolarismo. In questo contesto, anche per la cultura cattolica l’idea della “laicità” appare da sola del tutto inadeguata alla nuova congiuntura storica».

Anche nel campo laico si sono prodotte valutazioni differenziate. Alcuni laici liberali, pochi in verità e per fortuna, sono stati riassorbiti dalle vecchie pigrizie e hanno invitato piuttosto ad andare avanti “in purezza”. Altri laici, non liberali ma costruttivisti, hanno esortato la Chiesa a non farsi lusingare dalle sirene e, pur facendo infine concessioni all’identità cristiana dell’Occidente e alla superiorità della civiltà occidentale, hanno preferito chiamare a raccolta i liberali falsi (sempre nel senso di Hayek) del mondo cristiano.

Personalmente credo che il muro della diffidenza debba essere abbattuto. E credo che possa esserlo. La storia ha cambiato le carte. Rispetto alla questione identitaria che oggi si ripropone, è tornato il momento di riconoscere che liberali, laici, cristiani, appartengono alla stessa famiglia. Sento dire che non è facile. Non lo è, effettivamente, ma è meglio così. Quando il gioco è facile, solo i pigri giocano.

 

 

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