Convegno della Fondazione “Magna Carta”
Roma, 17 dicembre 2005
1. Il nostro scopo
A me spetta trarre le conclusioni di questo Convegno. Il còmpito non è difficile. Perché ciascuna delle relazioni che i miei amici e colleghi hanno svolto è già conclusiva, nel senso che esaurisce il problema dell’identità dai vari punti di vista affrontati.
E perché il tema dell’identità noi di “Magna Carta” lo abbiamo sollevato più volte con tanti interventi, pubblicazioni e convegni, a Milano, a Roma, a Norcia, a Lecce, altrove. Non solo perciò mi richiamerò agli interventi che mi hanno preceduto, ma ne riprenderò temi e proposte. In particolare, mi soffermerò su tre questioni:
Quale è la nostra identità?
Perché dobbiamo difenderla?
Come possiamo difenderla?
Prima di prendere di petto queste questioni, è utile che dichiari il mio e il nostro scopo. Siccome se lo aspettano e ce lo chiedono in molti, è giusto non deludere tanta curiosità.
Poiché la piega che stanno prendendo le cose in Occidente, soprattutto in Europa, non ci piace, e ne siamo preoccupati, noi di “Magna Carta” intendiamo dibattere e scuotere questa situazione. Cerchiamo di dire alla gente ciò che la gente – sempre di più – desidera le sia detto, perché avverte reticenza in tanti politici, ostilità in tanti intellettuali, irresponsabilità in tanta cultura.
Assumendo questo ruolo, facciamo politica? Sì, la facciamo, e siamo ambiziosi. Perché, con la nostra azione culturale, vogliamo presentarci alla politica ufficiale, farla uscire dal torpore, richiamarla al suo senso più alto e nobile. E perché vogliamo sfidare i ritardi, le pigrizie, le inerzie di chi riteneva di avere l’egemonia culturale e pensava che la questione dell’identità, dei princìpi e dei valori della nostra tradizione, fosse monopolio loro, da coniugarsi alla maniera loro, da mettere nell’agenda politica della parte fissata da loro.
Siamo intenzionati a dare voce chiara e parola non equivoca a tanta gente che ce lo chiede. A quelle forze politiche che per ideali sono più affini a noi chiediamo di essere ascoltati, perché temiamo che, se non prestano attenzione ai problemi che noi dibattiamo, tanti cittadini potrebbero sentirsi smarriti e incerti.
2. Quale identità
E ora vengo alla mia prima questione: di quale identità stiamo parlando?
La risposta è facile. L’identità di un popolo la fornisce la sua tradizione, la sua storia. E la nostra storia è greco-romana e giudaico cristiana. Più volte ho ricordato che noi discendiamo da tre colline – il Sinai, il Golgota, l’Acropoli – e abbiamo abitato in tre capitali – Gerusalemme, Atene, Roma. In quei luoghi si è formata la nostra tradizione. La tradizione delle istituzioni pubbliche, da cui, con un lungo percorso, sono derivati i nostri attuali regimi liberali e democratici. E la tradizione della dignità della persona, da cui, con un percorso altrettanto lungo, sono discesi i nostri diritti, i nostri princìpi e i nostri valori.
Pensiamoci con attenzione. Grazie alla polis e allo jus, siamo governati da leggi e istituzioni, e siamo cittadini uguali. Grazie al Dio creatore, siamo considerati persone degne di rispetto. E grazie alla polis e allo jus e al Dio creatore assieme, viviamo oggi in regimi liberali e democratici.
Questa non è teoria, è un fatto. Questo fatto della nostra tradizione lo tocchiamo persino nell’aspetto delle nostre città: in quella piazza il parlamento, in quell’altra il governo, in quell’altra il tribunale, in quell’altra la scuola, in quell’altra ancora la chiesa o la basilica o l’abbazia. Lo stesso fatto lo vediamo nella nostra arte, lo leggiamo nella letteratura, lo comprendiamo dalle nostre costituzioni, lo sentiamo nella nostra musica, lo avvertiamo nei nostri ideali. Togliete questo fatto e avrete tolto la nostra identità.
C’è un’obiezione: come negare che noi discendiamo anche da altro, non solo dalle tre capitali? Questa obiezione è fondata, ma è facilmente superabile. È vero, discendiamo anche da altre città. Dalla Firenze di Dante, dalla Pisa di Galileo, dalla Cambridge di Newton, dalla Konigsberg di Kant, dalla Amsterdam di Spinoza, dalla Ginevra di Rousseau, dalla Vienna di Freud, e da tanti altri posti ancora che hanno dato i natali ai nostri grandi padri. La storia ci ha mescolati, ma le nostre mescolanze sono state altrettanti innesti su un unico tronco e sulle stesse radici. Gli innesti hanno arricchito l’albero, ma sono le radici e il troncone che hanno dato linfa ai rami e alle foglie. Ancor oggi, se vogliamo definire chi siamo e capire perché siamo così e non altrimenti, dobbiamo dire che siamo i figli o i discendenti lontani di Gerusalemme, Atene e Roma. Dunque, non importa che siamo mescolati. Importa che abbiamo la stessa genealogia. E ancor più importa che ne siamo consapevoli.
Esiste una seconda obiezione, ed è più seria. Essa riguarda in particolare la parte giudaico-cristiana della nostra identità e dice: se la nostra identità è giudaico-cristiana, come possiamo stare assieme agli altri che ne hanno una loro propria? Come possiamo condividere gli stessi princìpi e valori con coloro della cui identità è parte essenziale un’altra religione?
Nel messaggio che ci ha inviato a Norcia, Papa Benedetto XVI ci è venuto incontro e ci ha anticipato la risposta corretta a questa domanda. Per i credenti cristiani – Egli ci ha detto – i diritti fondamentali sono «rinviabili direttamente al Creatore». Essi dunque sono diritti che preesistono «a qualsiasi giurisdizione statale». Ma anche per i non credenti, o per i credenti in altre religione, i diritti fondamentali dell’uomo vengono prima dello Stato, perché essi «trovano il loro fondamento nell’essenza stessa dell’uomo».
Questa è la risposta corretta all’obiezione: le nostre diverse religioni non sono gabbie, non sono ostacoli ad una comune identità, perché anche chi non è religioso o ha religioni diverse dalla nostra può e deve riconoscere che in ogni uomo c’è una persona, che ogni persona ha un valore in sé, e che questo valore in sé rende la persona soggetto degli stessi diritti fondamentali. Dunque, anche se non possiamo tutti dirci figli dello stesso Dio, possiamo tutti dirci membri della stessa civiltà. Anche se le nostre religioni sono diverse, la nostra civiltà ci rende uguali, perché ci mette a disposizione un uguale patrimonio di diritti fondamentali.
E questo arricchisce la risposta alla domanda da cui siamo partiti: qual è la nostra identità? Abbiamo detto: quella giudaico-cristiana. Ora possiamo completare la risposta: la nostra identità giudaico-cristiana è un’identità specifica e universale. È specifica, perché è la nostra, qui e ora. È universale, perché, se riconosce che la dignità dell’uomo viene prima della legge degli Stati, allora questa nostra identità vale per tutti, dà ospitalità a tutti, mette gli stessi princìpi e valori a disposizione di tutti.
Tra questi princìpi, ne cito uno che noi siamo spesso accusati di negare: lo Stato laico. Noi invece questo principio lo affermiamo. Ma, ha ragione Benedetto XVI nel messaggio di Norcia, la laicità deve essere «sana». Che vuol dire? Non vuol dire che lo Stato è neutrale o indifferente, perché, dovendo basarsi sul principio della dignità della persona, lo Stato adotta una lunga serie di altri valori. Non vuol dire che lo Stato è senza valori, perché, se rispetta la persona, lo Stato protegge anche tutti gli altri valori connessi. Non vuol dire che lo Stato è laicista, cioè che confina le religioni professate dai propri cittadini nella loro sfera privata, le bandisce da quella pubblica, e le sostituisce tutte con una propria, così come si vede fare in Europa quando le autorità bandiscono i simboli religiosi dall’abbigliamento dei cittadini o dai luoghi pubblici. No, «sana laicità» è quella dello Stato che, quando legifera attorno a valori, rispetta comunque la natura dell’uomo, la dignità della persona.
E poi ci sono gli altri princìpi: l’autonomia della società civile, il governo della legge, le istituzioni democratiche, la separazione dei poteri, il controllo circolare e il bilanciamento delle autorità, fanno parte anch’essi della nostra identità.
Quanto ai valori, anche qui possiamo limitarci a ricordare i principali. La inviolabilità della vita, la dignità della persona, la libertà individuale, l’uguaglianza – prima fra tutte l’uguaglianza uomo-donna – la tolleranza, il rispetto, la solidarietà, la giustizia, e così via, sono tutti elementi della nostra identità.
Possiamo allora concludere su questo punto dicendo: se accettiamo la nostra identità giudaico-cristiana, abbiamo un’eredità comune di cui tutti possono beneficiare. Tutti: cristiani, ebrei, islamici, credenti e non credenti. Tutti: purché accettino quella eredità di princìpi e valori.
3. Perché difendere la nostra identità
Ora che abbiamo identificato un’eredità comune – la nostra cittadinanza specifica e universale – possiamo passare alla seconda questione. Perché dobbiamo difenderla?
Dò due risposte. La prima è perché la nostra identità è attaccata dal terrorismo e dal fondamentalismo che si richiamano all’islam. Ho già detto che possiamo convivere con cittadini di fede islamica. Ma i fondamentalisti non sono tutti gli islamici. Fondamentalisti sono oggi quegli islamici che non vogliono convivere con noi, perché intendono imporre le loro leggi a noi. Fondamentalisti sono quelli che ci definiscono «Grande Satana», ci considerano corrotti, ci dichiarano una «guerra santa», vogliono distruggere l’Occidente, cercano di rovesciare l’ordine mondiale.
Attenzione alle loro parole. Quando ci chiamano con disprezzo «giudei e crociati», noi siamo accusati non di aver fatto qualcosa, ma di essere qualcosa, precisamente di essere i rappresentanti della tradizione giudaico-cristiana. E quando ci dichiarano la guerra santa, non lo fanno per rivendicazioni territoriali o economiche, lo fanno perché vogliono abbattere la nostra civiltà.
L’altra ragione per cui dobbiamo difendere la nostra identità è perché la stiamo smarrendo. Proprio la risposta che stiamo dando al terrorismo e al fondamentalismo ne è un esempio. Come abbiamo reagito noi in Europa?
Dapprima con la retorica, quando, dopo l’11 settembre, abbiamo detto «siamo tutti americani», senza crederci neanche un po’. Poi con l’appeasement con gli avversari, quando una parte dell’Europa si è divisa dall’altra e si è allontanata dall’America. Poi con la resa, quando, dopo la strage di Madrid, alcuni hanno ritirato le truppe dall’Iraq. Infine, con la dissimulazione, quando molti si sono nascosti dietro lo scudo dell’Onu per disattenderne sùbito le risoluzioni prese all’unanimità. E poi col pacifismo, con l’autocritica fino all’autoflagellazione, con l’acquiscenza.
Ma, quanto al pacifismo, la nostra tradizione dice “beati i pacifici”, non dice beati coloro che fuggono quando sono attaccati. E neppure dice beati quelli che non si prendono responsabilità. Pacifici sono i “costruttori di pace”. Quale titolo di merito l’Europa ha oggi se si fanno progressi enormi verso la costruzione della pace nel conflitto fra Israeliani e Palestinesi? Quale contributo ha dato a costruire la pace e la democrazia in Iraq? Che cosa sta facendo per promuovere ed esportare la cultura dei diritti umani fondamentali in quei paesi che ancora non la rispettano?
Quanto all’autocritica, perché l’Europa ritiene che il terrorismo sia colpa nostra? C’è solo una ragione: l’Europa ha così poca fede nella propria identità che crede che essa sia la causa e non il bersaglio degli attacchi che subisce. Perciò questa identità la cancella persino dal Preambolo della Costituzione. Perciò considera il terrorismo come un fenomeno di reazione e di difesa contro il nostro supposto espansionismo, e non invece quale in effetti è, un fenomeno di aggressione e di guerra alla nostra civiltà. E perciò tratta i terroristi come guerriglieri e i nostri soldati come occupanti anziché come liberatori.
Non è così! I nostri soldati sono in Iraq non per conquistare qualcosa per noi, ma per dare qualcosa a loro, ai cittadini iracheni. Sono in Iraq non perché noi siamo imperialisti, ma perché noi siamo democratici e della democrazia vogliamo fare un bene per tutti.
Infine, quanto all’acquiescenza, essa è la merce che l’Europa consuma di più. Si consideri il fenomeno dell’immigrazione, soprattutto quella islamica, che crea dappertutto i principali problemi di integrazione. Come ha risposto l’Europa? Con due modelli sbagliati.
Il primo modello è quello del multiculturalismo. Esso dice così: accettiamo tutti gli individui, consentiamo e favoriamo che essi vivano nelle rispettive comunità, deleghiamo a queste comunità, mediante le loro chiese, scuole, associazioni, la cura dell’identità degli individui, e occupiamoci solo della convivenza di tutte le comunità. Risultato? Ghetti, incomunicabilità, conflitti, fino ai terroristi di seconda generazione. Dopo le bombe di Londra, il Presidente della Commissione per l’uguaglianza razziale inglese Trevor Phillips ha scritto: «L’indomani del 7 luglio ci obbliga a valutare a che punto stiamo. E io penso che stiamo a questo punto: camminiamo come sonnambuli verso la segregazione». Proprio così: noi siamo sonnambuli sul precipizio. Ci vantiamo della nostra ospitalità, ma, privi di identità come siamo e vogliamo essere, corriamo il rischio dell’assimilazione al contrario, dell’ospitante da parte dell’ospite.
L’altro modello europeo di integrazione è quello nazionalista e giacobino. Qui è il laicismo che è responsabile del fallimento. Il modello dice: releghiamo la religione solo nella sfera privata degli individui, neghiamole qualsiasi ruolo pubblico, aboliamo tutti i segni e simboli di identità degli immigrati così come dei cittadini autoctoni, obblighiamo tutti ad un’unica identità, quella laica imposta dalla legge. Qual è stato il risultato? Lo stesso: segregazione, tensioni, incendi nelle periferie.
Che cosa hanno in comune questi due modelli sbagliati? Hanno in comune il relativismo, l’idea che una cultura vale l’altra, che una identità è buona come un’altra. Hanno in comune il nichilismo, l’idea che non c’è più verità, neanche la verità dei diritti umani fondamentali. Hanno in comune l’atteggiamento della decadenza e il sentimento della rassegnazione.
Mi chiedo: come si fa a non prendere atto dei risultati disastrosi che questa cultura e questa politica hanno prodotto? Giustamente, a proposito degli incidenti nelle banlieues, il Presidente francese ha detto che siamo in mezzo ad una «crisi di identità». Si può allora riprendere quanto si era voluto espungere dal Preambolo della Costituzione europea? Oppure si deve continuare in una politica di tolleranza, anche quando di fatto essa è scaduta a indifferenza, negligenza e malcelata sopportazione?
4. Come difendere la nostra identità
Ho detto che la nostra identità oggi è attaccata e che noi la stiamo disperdendo. Devo aggiungere anche che la stiamo violando. Questo accade su molti temi di bioetica. E da qui prendo lo spunto per rispondere alla mia terza e ultima domanda: come possiamo difendere la nostra identità?
Tutti ricordiamo la campagna dei laicisti al tempo del referendum sulla procreazione assistita. Che cosa era in gioco?
Non si trattava di correggere qualche aspetto di una legge, perché un emendamento si poteva approvare in Parlamento. E neppure si trattava di rifiutare lo Stato laico o la distinzione religione-politica, perché nessuno li aveva messi in discussione, se non gli stessi laicisti che sono i veri avversari, oltre che della religione, dello Stato sanamente laico.
No. Si trattava di rispondere ad una sfida laicista su domande cruciali per la nostra identità. Fra le altre, queste:
L’embrione è qualcosa o qualcuno, è persona o cosa?
La vita di un embrione è strumento per soddisfare diritti e desideri degli adulti oppure vale in sé?
La ricerca scientifica è un bene supremo a cui subordinare tutti gli altri, o ha dei limiti etici?
Alla fine, la domanda era: quei valori che fanno parte integrante e fondante della nostra tradizione giudaico-cristiana – in particolare il rispetto della vita umana e della dignità della persona – sono ancora validi per noi?
La nostra risposta è stata: sì, lo sono. Noi li dobbiamo ancora coltivare, dobbiamo cercare di collocarli nel miglior compromesso possibile con altri valori sapendo che qualunque compromesso è una perdita morale, ma non dobbiamo dimenticarli.
Quello che era in gioco sulla fecondazione assistita, lo è anche sulla questione dei matrimoni omosessuali. Qui la questione è: il matrimonio fra persone di sesso diverso, su cui, secondo la nostra Costituzione, è fondata la famiglia come «società naturale» – e si badi: naturale, non: culturale o giuridica – è ancora un’istituzione morale, oppure possiamo cambiarla a nostro piacimento?
La nostra risposta è: quel matrimonio eterosessuale rispecchia un ordine morale e deve essere tutelato. Non c’entrano le discriminazioni. La discriminazione in base a costumi sessuali in fatto di diritti politici, di diritto al lavoro, all’istruzione, eccetera, è odiosa e inaccettabile. Ma la discriminazione in base al matrimonio di persone dello stesso sesso, non è discriminazione: è un divieto morale dettato dalla nostra identità.
Anche sul tema dell’aborto è in gioco l’identità. La nostra posizione è che l’aborto può essere una tragica necessità, ma resta una soppressione di una una vita e una persona. Quando si parla di “civiltà” della legge 194, dobbiamo aver chiaro che essa non consiste nell’aver introdotto un diritto ad abortire, ma nell’aver posto un limite e un divieto agli aborti clandestini. Non è genuina civiltà autorizzare la morte, lo è aiutare le famiglie, con la solidarietà, l’assistenza, l’educazione, affinché quella tragica scelta non si verifichi o si verifichi il meno possibile.
Mi pare chiara ora la risposta al come dobbiamo difendere la nostra identità. La difendiamo affermando i nostri princìpi, sostenendo i nostri valori, rispettando la nostra tradizione, promuovendo la nostra civiltà. Possiamo farlo senza sentirci arroganti, dogmatici, colpevoli. Possiamo farlo con la consapevolezza dei nostri limiti ma anche con la serena coscienza dei nostri meriti. E se si può fare – e qui torniamo ad appellarci alle forze politiche – allora si deve fare.
Per oggi, e per una “minoranza creativa”, mi pare che sia sufficiente.