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L’Europa a un bivio

Conferenza all’American University of Rome, 21 febbraio 2006

 

1. Una deriva geopolitica dei continenti Il tema su cui intendo intrattenermi con voi è la crisi dell’Occidente, in particolare dell’Europa. La mia opinione è che questa crisi sia duplice, geopolitica e spirituale, e la seconda sia la causa principale della prima. Che l’Europa attraversi una crisi profonda è stato sostenuto da autorevoli studiosi, commentatori e da alcuni – sfrtunatamente pochi – leader politici del nostro continente. I termini più allarmanti sono stati usati dal cardinale Ratzinger ora Papa Benedetto XVI. Ecco cosa ha scritto due anni fa:

«Con la vittoria del mondo tecnico-secolare posteuropeo, con l’universalizzazione del suo modello di vita e della sua maniera di pensare, si diffonde … l’impressione che il sistema di valori dell’Europa, la sua cultura e la sua fede, ciò su cui si basa la sua identità, sia giunto alla fine e sia anzi già uscito di scena» (J.Ratzinger e M.Pera, Senza radici, Mondadori 2004, p.59)

Ancora:

«Il confronto con l’Impero Romano al tramonto si impone: esso funzionava ancora come grande cornice storica, ma in pratica viveva già di quei modelli che dovevano dissolverlo, aveva esaurito la sua energia vitale» (Ivi, p.60).

Iniziamo col dire che il concetto di Occidente può essere preso in due sensi: come area geopolitica e economica, come comunità culturale e spirituale. Nel primo senso, l’Occidente consiste di paesi che hanno gli stessi obiettivi, strategie, interessi, relazioni, istituzioni. Nel secondo senso, l’Occidente consiste di popoli che condividono gli stessi princìpi, valori, ideali, impegni religiosi.

Fino ai tempi della guerra fredda, quando il muro di Berlino era il simbolo della divisione del mondo in due blocchi contrapposti – non solo militarmente ma anche ideologicamente – l’Occidente copriva sia l’Europa che gli Stati Uniti. Non si dava solo il caso che l’Europa avesse bisogno dell’ombrello americano per il suo sviluppo economico e sociale, o che l’America avesse bisogno dell’alleato europeo per la sua guerra fredda al comunismo. Né si dava solo il caso che Europa e America costituissero un unico mercato. Questo è vero, ma solo parzialmente. Il fatto è che Europa e America si sentivano parte di una stessa area, comunità, civiltà, vale a dire l’Occidente. Non a caso allora l’Occidente era definito anche “mondo libero”.

Oggi non è più così. Tra Europa e Stati Uniti si sta producendo qualcosa di simile ad una deriva geopolitica dei continenti. Ciascuno sembra andare per conto proprio e in direzioni diverse. L’attentato alle Torri gemelle l’11 settembre 2001 ha segnato l’inizio di una nuova fase nei rapporti internazionali. Quel giorno è emersa una minaccia completamente nuova per l’Occidente, quella del terrorismo di matrice islamica. E malgrado all’indomani del massacro di New York tutti si fossero proclamati solidali con l’America – “siamo tutti americani”, ricordate? – quando si è trattato di esaminare nuove strategie e nuove risposte per far fronte a questa minaccia, l’Europa – almeno la maggior parte di essa – ha iniziato a mostrare esitazioni, a introdurre sottili distinzioni giuridiche e politiche, a vagheggiare un’indecifrabile “terza via”, a nascondersi dietro lo scudo del Consiglio di Sicurezza, e alla fine a lasciare sola l’America. In realtà, già pochi mesi dopo l’attacco non eravamo più tutti americani, non eravamo più tutti occidentali sulla stessa nave in balìa delle onde. Quella nave l’Europa l’aveva abbandonata. Perché?

2. Isolazionismo europeo

Non tutti si sono ancora accorti che le frontiere della sicurezza dell’Europa e dell’Occidente si sono allargate a dismisura. Non tutti sono coscienti che la nostra sicurezza non dipende più soltanto dalla stabilità di teatri a noi prossimi, come i Balcani o il Mediterraneo, ma si gioca anche in aree più remote. Nel nostro continente molti hanno difficoltà a capire che in una regione lontana, sia essa asiatica o africana o mediorientale, può accadere qualcosa che costituisce un pericolo per le nostre società. Molti stentano a credere che anche la sicurezza delle nostre città può dipendere dalla stabilità in aree remote. E molti pensano che una manifestazione pacifista – cioè antiamericana – qui possa fermare un tiranno là.

Neanche i recentissimi attacchi alle nostre Ambasciate e ai nostri Consolati, le Chiese date alle fiamme, l’uccisione di nostri sacerdoti sembrano in grado di svegliare l’Europa. “Dialogo”, “comprensione”, “tolleranza”, “giustificazione”, “indulgenza”, sono ancora le principali parole d’ordine europee.

Guardiamo soltanto ai fatti, nella loro impietosa concretezza. L’Europa considera con sospetto il dibattito sulla promozione della democrazia nella regione mediorientale e nell’Asia centrale. L’Europa ha risposto con scarsa convinzione al tentativo – difficile ma finora coronato da successo – di dare finalmente voce alle speranze di popolazioni che per decenni hanno conosciuto solo dominazione e repressione, come in Afghanistan o in Iraq. L’Europa appare timida – e talvolta tentata di indulgere nell’appeasement – di fronte ai proclami del fanatismo islamico. L’Europa è divisa riguardo alla identificazione dei gruppi terroristici. Nel nostro continente, i discorsi degli intellettuali più alla moda sono sempre ispirati al gergo dei diritti umani fondamentali, ma quando si tratta di passare dalla teoria alla pratica e di far rispettare questi diritti nessuno vuole assumersene la responsabilità.

Il risultato di questo stato di cose sembra un ribaltamento di una costante storica, quasi che in Europa crescesse una nuova forma di isolazionismo, in opposizione ad un nuovo interventismo americano.

Oggi l’America mette al centro della sua politica estera non esclusivamente la potenza militare, ma il concetto di pace democratica. Essa agisce in base a due presupposti. Il primo è che la promozione della libertà rappresenta il solo realistico percorso per conseguire una maggiore sicurezza internazionale, e quindi per assicurare la nostra stessa sicurezza. Il secondo è che proprio il deficit di libertà costituisca il terreno primario di coltura per la diffusione di ideologie virulente e minacciose.

Questa è una visione schiettamente wilsoniana. Ma l’Europa considera questo wilsonismo assertivo propugnato da un Presidente repubblicano una forma di neo-imperialismo o una volontà malvagia di ingerenza nella vita degli altri paesi. Molto tempo dopo la caduta del comunismo, l’Europa è tuttora rinchiusa nell’illusione che la fine della Guerra Fredda abbia comportato la fine di tutte le guerre. Sembra davvero credere di poter vivere per sempre in un’oasi felice, che stia per arrivare la “fine della storia” di Fukuyama, o per avvicinarsi la “pace perpetua” di Kant. E quindi l’Europa vagheggia la realizzazione di un nuovo ordine mondiale, basato sul cosiddetto multipolarismo, il cui obiettivo è il bilanciamento della superpotenza americana, considerata aggressiva e governata da inconfessabili interessi economici.

Come è potuto accadere tutto questo? Per trovare una risposta, dobbiamo tornare al secondo significato di Occidente, quello culturale di cui ho detto all’inizio.

3. Decadenza spirituale

Preso come comunità culturale, l’Occidente è un credo, una professione di fede in certi aspetti fondamentali della sua storia. La convinzione profonda sottostante a questo credo è che le società occidentali hanno sviluppato princìpi e valori che sono validi per tutta l’umanità, sotto qualsiasi latitudine o longitudine. Questo è chiamato universalismo.

Per secoli, l’Occidente ha coltivato questa convinzione. Esso ha pensato che la verità, la libertà, la democrazia, la tolleranza, il rispetto, la compassione, e molti altri valori collegati, fossero stati forgiati in un posto ma validi in tutti i posti. È da questa convinzione che sono nate le Carte, Convenzioni, Dichiarazioni sui diritti umani, che appunto si dicono universali, ad esempio quella delle Nazioni Unite.

In Europa, oggi l’universalismo è entrato in crisi. È considerato il frutto proibito e avvelenato dell’Illuminismo, ed è stato rimpiazzato dal suo estremo opposto, il relativismo, una dottrina secondo la quale le tradizioni, le culture, le civiltà, sono sistemi autonomi e chiusi, ciascuna con propri criteri di valore e con proprie procedure di validazione.

La principale e più rischiosa conseguenza del relativismo è che non esiste una scala comune lungo la quale collocare tutte le culture e giudicarle in termini di maggiore o minore bontà, giustezza, desiderabilità, eccetera. Il relativismo sostiene che i sistemi culturali hanno tutti la stessa dignità etica, e perciò sono tutti uguali. Tutti: i fondamentalisti come i democratici, i fanatici come i liberali, i violenti come gli umanitari, gli intolleranti come i dialoganti.

I sintomi di questa malattia relativistica sono molti ed interconnessi.

La prima tessera del domino è la crisi di identità. Essa si è svelata in pieno quando i costituenti europei hanno deciso di omettere le radici giudaico-cristiane dal Preambolo della Costituzione dell’Unione Europea, poi respinta da Francia e Olanda. Al loro posto, la Costituzione inserisce vaghe formule che fanno riferimento alla “eredità spirituale e morale dell’Europa”, e alla sua “eredità culturale, religiosa e umanistica”. Com’è evidente, sono espressioni rituali povere e reticenti, che non definiscono con precisione di quale eredità e di quale religione l’Europa sia debitrice.

Un altro sintomo è il multiculturalismo, cioè la dottrina, e la politica, secondo cui i diritti delle comunità sono sovraordinati a quelli degli individui. Praticata soprattutto in Inghilterra, questa politica ha inteso integrare rispettando le comunità e consentendo che tutte vivessero secondo i loro costumi e stili di vita, senza interferenza dello Stato. Il risultato sono state tensioni sociali, ghetti, scuole in cui si educano i ragazzi ad una cultura diversa e spesso ostile a quella del paese ospitante, tanto che il massimo responsabile delle politiche dell’integrazione nel Regno Unito ha ammonito che il paese sta inconsapevolmente scivolando verso nuove forme di segregazione.

Vi è poi un altro sintomo da cui emerge una bizzarra “sindrome di colpevolezza”. Ecco la catena di un argomento tipici di molti intellettuali europei. Se terroristi islamici hanno dichiarato una jihad contro di noi – si dice – vuol dire che provano risentimento nei nostri confronti. Se provano risentimento, deve per forza essere il risultato di ineguaglianze sociali ed economiche. Se queste ineguaglianze esistono, deve essere colpa dell’Occidente, e soprattutto dell’America, del suo potere economico, del suo imperialismo militare e della sua arroganza culturale. Alla fine, se l’Occidente è colpevole di tutto ciò – come certamente è, perché tenta di promuovere ed esportare il suo stile di vita come se fosse valido per chiunque e ovunque – allora l’Occidente merita tutto quello che gli capita. La conclusione è: è tutta colpa nostra. Più esattamente: è tutta colpa dell’America.

Vi è un altro tassello da aggiungere a questo mosaico, ed è la deriva laicista che ha conosciuto il nostro continente, da cui discende il ruolo marginale che gioca oggi la religione nella società europea. L’Europa ha da tempo conquistato la separazione fra Stato e Chiesa. Ma questa separazione – la quale, incidentalmente, risale al Vangelo – è una conquista civile della quale andar fieri ma sulla quale bisogna evitare di fare confusione. Essa riguarda le istituzioni politiche e i loro confini, non la dimensione umana e i suoi àmbiti. In altre parole, la separazione fra Stato e Chiesa implica che un’istitituzione non sia sovraordinata all’altra, ma non implica che la religione debba essere espulsa dal contesto sociale, considerata una questione unicamente privata, ed infine essere confinata solo nel “ghetto della soggettività”, per usare una frase di Papa Benedetto XVI. Purtroppo, questo invece è proprio ciò che accade in Europa. L’espressione pubblica del sentimento religioso dà fastidio, è disapprovata, è scoraggiata, se non proprio vietata.

La prima conseguenza è che la religione non può alimentare il nostro costume civile, fornire un legame sociale, essere di sostegno delle nostre regole e dei nostri comportamenti pubblici, a differenza che in America dove la sfera privata ha ancora un forte carattere pubblico. Un’altra conseguenza è che il costante ampliamento della sfera delle possibilità si tramuta – in mancanza di limiti imposti dalla coscienza o dal credo – in un altrettanto costante allargamento della sfera dei diritti, con esiti deleteri sulla tenuta delle nostre società.

4. Dialogo e verità

L’effetto di questa crisi per l’Europa è devastante. Se ci manca un credo, una fede, un legame spirituale, come possiamo giustificare tutti quei nobili valori – la libertà, la democrazia, la tolleranza, il rispetto, la fratellanza, eccetera – che pure noi europei professiamo così risolutamente? E come possiamo proporli come esempio ad altri, se non ci crediamo noi stessi? Come possiamo sperare di trovare una identità, e poi rispettarla e difenderla?

Se questo è il pensiero prevalente, se davvero si crede che la parità fra uomo e donna valga solo per noi, che la democrazia sia un costume nostro e inadatto ad altri popoli, che la libertà della società civile sia valida solo fra le nostre mura, che le libere istituzioni siano buone solo per noi, insomma, se davvero si crede che tutto ciò che vale per noi non vale per gli altri, allora non c’è da meravigliarsi delle esitazioni e delle reticenze in tema di esportazione o diffusione della democrazia, o delle titubanze quando si discute di diritti umani, o degli indugi nel combattere il rinascente antisemitismo.

Certo, noi dobbiamo imparare da tutte le culture, dobbiamo confrontarci con tutti, dobbiamo entrare in dialogo con gli altri, dobbiamo essere pronti ad abbandonare le nostre idee, anche quelle che consideriamo migliori. Ma non possiamo confrontarci con nessuno o intrattenere un dialogo con alcuno se, in partenza, sosteniamo che non c’è nessuna verità da affermare, nessun valore da preferire, nessun principio che valga la pena essere difeso.

La domanda allora è: può l’Europa unificarsi economicamente, socialmente e politicamente; può essa ergersi a faro del progresso; può affiancare l’America nel proporre credibili ricette innovative in campo internazionale se non intende affermare e promuovere tutti quei valori e quei princìpi senza la quale essa neppure esisterebbe e che rappresentano il nocciolo della sua identità?

La mia risposta è: no, non può. Se l’Europa non ritroverà presto la fiducia nei suoi princìpi, se non tornerà a capire che essi valgono non solo per sé ma per tutti, perché dànno dignità e ospitalità a tutti, essa diventerà irrilevante sulla scena mondiale. Se quel giorno arriverà, avremo perso tutti, perché la nostra grande civiltà si sarà trasferita altrove. E se ciò accadrà, l’Occidente, come l’avevamo conosciuto, rischierà anch’esso il tramonto.

 

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