Lugano, 8 ottobre 2004
Discorso pronunciato alla cerimonia per il decennale della scomparsa di Giovanni Spadolini, organizzata dal Circolo culturale Nuova Antologia di Lugano nell’auditorium della Radio svizzera.
Lugano e questa ricorrenza possono essere considerati un luogo e una data emblematici. Qui s’incrociano i nomi di Giovanni Spadolini, Giuseppe Prezzolini e Giuseppe Mazzini, nel centosettantesimo anniversario della fondazione della “Giovine Europa” (1834) e nel ventennale della celebrazione solenne che proprio Spadolini ne fece (1984).
Nel parlare del problema dell’Occidente, mi metterò dal loro punto di vista. Comincerò ricordando la loro esperienza mazziniana, breve e senza dubbio velleitaria, ma gravida d’importanza per il futuro “modello” occidentale. Proseguirò parlando delle ragioni che, secondo Spadolini, stavano a fondamento della comune identità occidentale. E concluderò con una riflessione personale sull’Europa e l’Occidente.
1. Mazzini, in esilio in Svizzera, immagina che il percorso verso la costituzione degli stati-nazione del Vecchio continente, pure in Germania, in Polonia, in Italia, non sia sufficiente. Lo stato-nazione rappresenta, in quel momento, una necessità, perché crea comunità coese, fonda istituzioni stabili, costituisce la “massa critica” minima per lo sviluppo economico. Ma, di per sé, se abbandonato al “libero mercato” dei nazionalismi, il modello degli stati-nazione contiene pure una incredibile carica autodistruttiva. Per questo, come l’esempio svizzero rammenta, occorre, secondo Mazzini, inoculare, fin dalla fase costitutiva, nel corpo degli stati, un antidoto.
Questo antidoto è quello che si potrebbe definire la comune appartenenza a una “civiltà occidentale”, ovvero la costruzione di un “discorso pubblico” aperto alla circolazione delle idee e dei valori in ambito sovranazionale incorniciato in una medesima visione della vita, della cultura, della società. La “Giovine Europa” vuol essere perciò il germe di un’identità occidentale democratica, che, in seguito, verso gli anni Cinquanta e Sessanta, lo stesso Mazzini avrebbe allargato agli Stati Uniti d’America (vagheggiando un “Concilio degli Intelletti virtuosi d’Europa e d’America”). Cioè uno spazio pubblico euro-atlantico, in grado di attutire e depotenziare i conflitti inter-statali, e, nello stesso tempo, di dimostrare che – sulla base della democrazia – è possibile unificare, per gradi, l’intera umanità.
Si tratta di una visione ideale, senza dubbio. Ma è interessante riflettere su di essa, nel momento in cui ricordiamo, qui a Lugano, le figure di Spadolini e di Prezzolini. Entrambi, su questo tema, pensarono e agirono mazzinianamente. Entrambi, in modi, forme e con esiti diversi, coltivarono progetti mazziniani. Ed entrambi ne rimasero delusi.
2. Questi due uomini ebbero un rapporto non facile con il loro paese, si considerarono sempre di forte individualità “di minoranza”, ma furono anche legati, come Mazzini, ad un’idea inflessibile dell’Occidente. Essi condividevano il senso profondo di un’appartenenza non dogmatica, non etnica, ma profondamente culturale, e perciò ancora più profonda, dell’Ovest.
Nel suo celebre libro, Lo scontro delle civiltà, Samuel Huntington ha detto che non esiste, nel mondo, nessun’altra realtà di dimensioni continentali o sub-continentali che si auto-definisca attraverso un punto cardinale. Che cosa vuol dire Occidente? Non è una religione, non è un territorio, non è un’etnia, non è niente di ciò che divide, agita, distrugge le comunità. Al contrario, l’Occidente è una quantità di impulsi ideali che costruiscono uno spazio mentale, e che viaggiano senza confini e senza barriere. È un’entità culturale e morale. È una storia, una tradizione, un costume di vita.
Non è difficile, perciò, comprendere come due uomini di cultura e due intellettuali come Spadolini e Prezzolini, fossero affascinati dall’Occidente. Era l’aria che respiravano, dentro il loro paese, o qui, in Svizzera, o altrove, negli Stati Uniti, che li faceva sentire a casa loro; e che consentiva loro di stemperare un giudizio a tratti severo sulla patria d’origine perché nutrito della consapevolezza (e forse, più che della consapevolezza, della volontà e della speranza) che il sistema di vita che essi avevano scelto – cioè il nostro – si espandeva comunque, all’interno e all’esterno dei confini nazionali.
«I nomi di Gobetti e di Prezzolini si uniscono quasi inscindibilmente nella mia memoria di adolescente – scriveva Spadolini ne L’Italia della ragione del 1978 -. Sono gli anni della libreria Giorni. Sono gli anni fra il 1945 e il 1950: in cui lo studente del fiorentino ginnasio “Galileo”, nel vecchio edificio scolopio legato alla chiesa di San Giovannino, imparava a frequentare le ombre e i fantasmi del Risorgimento e della lotta politica italiana in quello scantinato umido e polveroso e semibuio e scomodissimo».
Agli occhi di Spadolini, questo volume costituisce l’ideale prosecuzione di un filone di riflessioni su politica e cultura, inaugurato da Oriani, proseguito da Gobetti, “restaurato” infine da Nino Valeri nel secondo dopoguerra. Ma costituisce anche l’inizio di una riflessione e di un bilancio dei conti con Prezzolini.
Bilancio e conti difficili. Gobetti e Prezzolini, due modelli di giornalismo e di educazione politica, erano agli antipodi. Li aveva divisi la questione religiosa, in uno vissuta con la sottigliezza di un umanista scettico, nell’altro assunta nella sua intransigenza quasi protestante. Sarebbe tornata a dividerli la posizione sul fascismo, impegno combattente nell’uno, scetticismo dell’Accademia degli Apoti nell’altro. Per Spadolini, fra il piemontese e il toscano non era semplice scegliere. Schierarsi con l’intellettuale che avrebbe posto per tutta la vita la sua mente brillante sopra la politica, convinto di un primato dell’intelligenza che doveva essere preservato di per sé, indipendentemente dall’azione? Oppure mettersi dalla parte dell’intellettuale che aveva messo l’intelligenza, e la vita, al servizio di un disegno politico di cui, peraltro, era stato, in fondo, l’artefice geniale e velleitario?
Il problema non riguarda soltanto il giovane Spadolini, quello dipinto nelle note autobiografiche come «inquieto e cercante». Il problema riguarda lo Spadolini adulto, per il quale – giova ricordarlo – la genealogia culturale non apparteneva al campo dell’erudizione o del sapere libresco. La sofferta, e un po’ eccessiva, calata nello scantinato del Giorni, equivale ad una ricerca in primo luogo personale, di “padri”, di “fratelli maggiori”. E la scoperta di Gobetti e di Prezzolini equivale a un’agnizione, ad un riconoscimento, ad un disvelamento, che segnano, per il professore fiorentino, l’avvio di un percorso ben preciso, in bilico fra politica e cultura, fra giornalismo e insegnamento.
Questa sfida lanciata dai due maestri – cambiare l’Italia utilizzando l’impervio itinerario della forza intellettuale -, viene raccolta da Spadolini non nel 1940, ma trent’anni dopo, quando, chiusa bruscamente la stagione del “Corriere”, si squaderna, al cospetto dell’ex-direttore, un’epoca nuova, con l’ingresso a Montecitorio benedetto da Indro Montanelli (forse percepito, in quel momento, nei panni di Prezzolini). Spadolini, allora, pende verso il côté gobettiano, quello della “prova del fuoco”, dell’azione, dell’impegno politico diretto.
La cosa che colpisce di più, se si scorre la pubblicistica spadoliniana fra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, è lo sforzo di accreditare, di legittimare, una storia “altra” dell’Italia recente, composta da una galleria di personaggi alla periferia delle grandi correnti politiche e delle principali ideologie di massa, ciascuno portatore di un’idea, di un’interpretazione “eretica”, e perciò laica per antonomasia, della realtà del paese. Il culto del paradosso, sorretto da uno spirito disincantato e a tratti ironico, unisce Spadolini ai suoi punti di riferimento. Non si può rinnovare – questo diventa il suo fermo convincimento – la vita della nazione se non si costruisce e se non si diffonde un punto di vista anticonformistico e coraggioso su ciò che la nazione è stata.
È a questo punto che, i “debiti” contratti con Gobetti e con Prezzolini si rivelano preziosi. I modelli dei concetti interpretativi e delle categorie critiche, assieme alla persuasione del ruolo del mezzo giornalistico-letterario, sono tutti lì. Spadolini persegue il suo progetto con decisione e pertinacia archeologica, riportando alla luce i reperti di una “Italia della ragione”, di una “Italia di minoranza”, di una “Italia laica”, che probabilmente è più il frutto di una sistemazione culturale sincretistica, che la elaborazione originale di un sistema di pensiero e il riferimento omogeneo di un corso di azione. Ma questo non suoni a critica severa. Non aveva fatto altrettanto Gobetti, con i suoi illuministi piemontesi? E non si era comportato allo stesso modo Prezzolini, quando aveva ospitato sulla “Voce” una robusta corrente revisionista, da Giovanni Amendola in giù?
Poi, forse, la fattualità della politica aveva prevalso sull’idealità dell’intelligenza. In questo senso: che il siero culturale laico, iniettato a dose massicce fin verso il 1983-1984 nel corpo dei partiti laici e della compagine governativa, si era andato trasformando in un unguento, in un lenitivo per le ferite della politica romana. Tra queste, anche quelle derivate dagli “strappi” all’idea spadoliniana di Occidente.
In quel torno di tempo, infatti, la sfida della Guerra Fredda si riacutizzava e gli istinti del mondo anglosassone, attraversato dalle straordinarie individualità di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, tornavano a differenziarsi da quelli dell’Europa continentale. Memore di Mazzini, Spadolini, allora, fu tra i pochi statisti a comprendere come la ragione di un’unità fondata sulla comune identità occidentale rappresentasse una bussola indispensabile da non smarrire, a cospetto degli sconvolgimenti epocali che già si annunziavano. E fu tra i pochi ad agire di conseguenza.
Questa ragione egli la affermò con forza quando si trattò di acconsentire all’installazione degli euromissili, al fine di contrastare gli SS20 già schierati dai sovietici. In questa vicenda, la tenuta ideale e l’azione politica sua e di altri statisti italiani, come Craxi e Cossiga, fu determinante per l’appoggio alla politica di sicurezza occidentale e, innanzitutto, americana assicurato da tedeschi e francesi.
Questa stessa ragione Spadolini la ribadì anche quando essa comportò il prezzo di restare politicamente isolato. Avvenne quando egli comprese che la legittima volontà di conquistare all’Italia un’influenza nell’area del Mediterraneo non si sarebbe potuta perseguire al costo della tolleranza delle azioni dei terroristi, già allora portatori di un messaggio incompatibile con le nostre radici perché negazione del valore fondante della tradizione dell’Occidente.
Fu allora, forse, che Spadolini, certo deluso, forse ripiegato, si dedicò ad una rivisitazione integrale della storia italiana fra ‘800 e ‘900, meno esposta sul terreno immediata declinazione politica, e tornò a pesare la lezione di Prezzolini. Emersero così il gusto per il paradosso, le frasi concitate che inseguivano il ragionamento, il giudizio preciso e tagliente, la valutazione severa, mentre le spiagge della militanza si facevano più remote, come se la possibilità d’incidere sulla vita del paese diventasse un miraggio. Fu una ginnastica della mente sana e corroborante, che, infine, rese Spadolini quell’uomo straordinario e inclassificabile che abbiamo conosciuto. Un “caso”, appunto. Come lui stesso, una volta, aveva definito Prezzolini.
3. Che ne è, oggi, di quelle ragioni mazziniane di Spadolini, della Giovine Europa, dello spirito occidentale? Non si può indulgere all’ottimismo. Chi è laico, del resto, e sa misurare l’ideale con il reale, il dover essere con ciò che è, non lo fa mai.
Della Giovine Europa, trasformata in Unione Europea, si può dire tanto bene. Uno fra tutti: che essa ha consentito che nel nostro Continente i nazionalismi non riesplodessero e le tragedie da essi causate non si ripetessero. Ma non basta, se si vuol essere realisti e franchi.
Di fronte a nuovi problemi epocali, in primo luogo la sfida mortale lanciata dal terrorismo islamico, l’Europa mostra non solo di essere impreparata, ma anche di vacillare rispetto all’impegno che essa deve alla difesa della propria civiltà. Il rifiuto di inserire nel Trattato costituzionale europeo il richiamo alle nostre radici cristiane, più propriamente giudaico-cristiane, che lo stesso Spadolini penso avrebbe giudicato severamente, fa la spia a questo stato d’animo europeo, incerto, smarrito, ripiegato, indeciso, e sostanzialmente arrendevole. Come se l’Europa non credesse più a sé. Come se si vergognasse della propria identità. Come se avesse paura di dirla, sostenerla, difenderla.
Il terrorismo islamico oggi ci minaccia, ci attacca, ci ricatta, ci uccide, anche nei modi più barbari. Questo terrorismo proclama e pratica una jihad, una guerra santa, contro l’America, Israele, l’Occidente, e quegli stessi paesi arabi e islamici che con l’Occidente intendono invece convivere con vantaggio reciproco. L’Europa non reagisce, si divide, si appella all’Onu, e quando l’Onu infine trova una unanimità, l’Europa torna ugualmente a dividersi e a non reagire. Sembra soffiare su di noi un nuovo spirito di Monaco, la tentazione di venire a patti con il nemico, di sottostimarne il pericolo, di ignorarlo, di chiudersi in casa e lasciare ad altri il còmpito di batterlo.
In questo contesto, anche le relazioni euro-atlantiche – i vincoli di civiltà di Mazzini e Spadolini – attraversano una fase di gravi difficoltà. Con la crisi dei rapporti prima e dopo la guerra in Iraq, i ruoli si invertono. Diventata vecchia, la Giovine Europa non trova più la sintonia di un tempo con la giovane America.
Si deve reagire, io credo. Si deve riaffermare il valore dell’Occidente. Si deve invertire la tendenza a pensare che ciò che di peggio accade nel mondo è colpa nostra. Si devono unire le forze. E si deve combattere: con la diplomazia, la politica, il diritto, l’economia, la cultura, ma anche con l’impiego intelligente, mirato, proporzionato della forza, quando è il caso. La pace – questo l’Europa sembra averlo dimenticato – non è un diritto naturale, non è uno stato di natura: è un equilibrio, una conquista difficile, giorno per giorno. È faticoso mantenerlo, questo equilibrio, ma è più costoso ristabilirlo quando si sia spezzato.
Nessuno può dire che cosa avrebbe pensato Spadolini su questo tema. A noi basta ricordare che cosa disse e che cosa fece in difesa della nostra identità e comunità occidentale. È per questo che lo apprezziamo e lo ricordiamo.