Interventi

La riforma costituzionale al via del Senato

Cernobbio, 27 marzo 2004

Discorso pronunciato dal Presidente Pera al convegno di Confcommercio e Studio Ambrosetti

1. Una necessità in ritardo La riforma costituzionale che è stata approvata giovedì 25 marzo in prima lettura al Senato è una riforma importante, ambiziosa e che certamente ha impegnato i senatori in un approfondito dibattito. Pochi dati bastano a dimostrarlo. Oltre due mesi di discussione; 35 sedute; 113 ore di dibattito e votazioni; 2031 emendamenti; 1123 votazioni; 638 interventi. Si tratta di un impegno quale mai prima si era avuto in Senato per l’esame di un disegno di legge.

E di un risultato davvero notevole quanto alla quantità di articoli della Costituzione riveduti e alla incisività degli interventi effettuati sulle principali istituzioni. Siamo, naturalmente, solo al primo dei quattro passaggi previsti. Ma, quale che sia il cammino successivo, si può fin d’ora dire che si è segnato un successo. Per la prima volta si arriva ad un voto per un cambiamento tanto incisivo della nostra Costituzione, con i mezzi previsti dalla Costituzione stessa. Tutti ricorderanno i numerosi tentativi falliti nel corso degli ultimi venti anni, dalla “grande riforma” di Craxi, al “Decalogo” Spadolini, alle Commissioni di studio Ritz e Bonifacio, alla Commisione bicamerale De Mita-Iotti, alla Commissione bicamerale D’Alema. Solo nell’ultima legislatura si è fatto meglio, con l’avvio della riforma federalista, approvata dal Parlamento e confermata da un referendum. Basterebbe questa storia per smentire una tesi che in questi giorni è stata avanzata: che della riforma della Costituzione non ci sia affatto bisogno e che essa è venuta all’improvviso, a freddo, senza tempi di maturazione. Al contrario, la riforma della Costituzione è già in grave ritardo e su di essa si è discusso in abbondanza, tanto da provocare quell’effetto di saturazione che spiega la disattenzione sull’argomento da parte dell’opinione pubblica e spiega anche, ma non giustifica, l’analoga reazione del suo intermediario, la stampa. Senza timore di essere smentiti, si può dire che da parecchi decenni il nostro sistema istituzionale – parlo naturalmente della parte ordinamentale della Costituzione – non è più del tutto adeguato alle esigenze poste in essere dai processi di modernizzazione, liberalizzazione e infine europeizzazione e globalizzazione del nostro Paese. E si potrebbe andare anche più indietro e ricordare che, a Costituzione del 1948 ancora calda e prima di varare la legge elettorale con premio di maggioranza (la ingiustamente definita “legge truffa”), De Gasperi già diceva che occorreva rivedere un punto cruciale del nostro sistema, quello del rapporto fra partiti, Parlamento e Governo, proprio quel punto cruciale che poi generò la partitocrazia e degenerò in assemblearismo e consociativismo. Dunque, la riforma della Costituzione è una necessità. Quando gli operatori lamentano che occorrono misure incisive, interventi tempestivi, procedure snelle, istituti efficienti, per far ripartire l’economia – così come altri chiedono lo stesso nei settori dell’istruzione, dell’università, della ricerca, delle infrastrutture, dell’amministrazione, del welfare, ecc. ecc. -, dimenticano che la condizione necessaria per tutto questo è che le istituzioni siano ben congegnate allo scopo da raggiungere. Dico “necessaria”, naturalmente, perché la, o le, condizioni sufficienti risiedono nei programmi, nella volontà, nella capacità delle forze politiche che si alternano al governo. E, a ben considerare, anche questo riferimento all’alternanza di governo è un altro indice della necessità di una riforma costituzionale, essendo ben noto che le nostre istituzioni sono state disegnate in epoca anteriore e con scopi diversi da quelli di garantire quel bipolarismo che, diversamente da ciò che accade nella maggior parte dei paesi d’Europa e d’Occidente, si è da poco affermato o, se si vuol essere più pessimisti, stenta da tempo ad affermarsi o consolidarsi anche in Italia. 2. Due obiettivi della riforma Per essere adeguata alle esigenze, una riforma della Costituzione deve prima indicare con chiarezza quali esigenze, onde poi valutare la corrispondenza dei mezzi ai fini. Ora, gli scopi diffusamente considerati come primari e comunque gli scopi dichiarati dalla riforma votata in Senato giovedì, sono principalmente due:

         •       consolidare la democrazia dell’alternanza, e perciò rivedere la forma di governo;     •       completare il federalismo, e perciò rivedere la forma di stato e il bicameralismo perfetto.

Bastano poche domande per comprendere la desiderabilità di entrambi questi scopi e l’incongruenza che si verifica ove non siano raggiunti. Sul primo. E’ concepibile, nella democrazia dell’alternanza, mantenere la figura di un Presidente del Consiglio che non ha neppure i poteri del Sindaco di Cernobbio? E’ ragionevole che, mentre il Sindaco di Cernobbio può cambiare i suoi assessori, il Presidente del Consiglio non può farlo con i suoi ministri? E’ coerente che il Sindaco di Cernobbio abbia, rispetto al potere del Consiglio comunale di sfiduciarlo, il contropotere di sciogliere lo stesso Consiglio, mentre il Presidente del Consiglio no? Ed è comprensibile che il Sindaco di Cernobbio sia eletto direttamente, mentre il Presidente del Consiglio sia “indicato”, e per di più in una maniera così informale che, se il Governo entra in crisi, il Presidente della Repubblica può trovarsi nell’imbarazzo tra il rispetto della volontà popolare e l’ossequio alla Costituzione formale, l’una che vorrebbe il ritorno alle urne, l’altra che consente invece un governo purchessia? Sul secondo scopo. Se si vuole la devoluzione delle competenze legislative alle Regioni, è possibile non avere una sede istituzionale, cioè un Senato federale, in cui gli interessi delle Regioni siano armonizzati fra loro e, tutti assieme, resi compatibili con quello dello Stato? E’ concepibile che in questa istituzione le regioni, direttamente o indirettamente, non siano rappresentate? E come si giustifica il bicameralismo perfetto, in cui tutte e due le Camere fanno la stessa cosa, mentre le Regioni lamentano che non fanno alcuna cosa per loro, o non la fanno come da loro richiesta? La risposta a tutte queste domande retoriche è una sola: questo assetto non si giustifica più e deve essere modificato. Come? 3. Il governo del premier Vengo così alla riforma appena votata in prima lettura, e riprendo i due scopi che ho indicato, cominciando dal primo, la forma di Governo. Farò delle valutazioni di sistema, non solo, come è ovvio, per rispetto alla mia carica, ma perché credo che le valutazioni di sistema siano di gran lunga più importanti di quelle di modello. Anche se si distinguono in alcune poche grandi famiglie, ogni paese ha una Costituzione con un modello peculiare, e ciò che in esse è fondamentale non è tanto il modello quanto il modo in cui il modello è realizzato in relazione agli equilibri, ai pesi e contrappesi, alle garanzie, alla duttilità, all’efficienza. La forma di governo scelta dalla maggioranza e passata in Senato è quella del premierato. Un Primo Ministro “indicato” (non eletto direttamente) dai cittadini, associato ai candidati nei collegi uninominali, con il potere di nominare e revocare i ministri, il dovere di dimettersi, con successivo ricorso alle urne, in caso di sfiducia della Camere, il potere di chiedere al Capo dello Stato di sciogliere la Camera in caso si ritenga non più sostenuto dalla sua maggioranza, ma il dovere di passare la mano nel caso in cui la sua maggioranza (con decisione approvata dalla maggioranza della Camera) intenda sostituirlo con un altro. Già da questa lista di poteri e doveri, a me sembra che ci troviamo di fronte ad un modello coerente, equilibrato, trasparente, garantito. E perciò a me sembra che si tratti di un modello raccomandabile. Finalmente il Primo Ministro d’Italia potrà dire di avere almeno gli stessi poteri e doveri del Sindaco di Cernobbio! Questo sembra a me, ma non solo a me. Perché così è sembrato alla maggioranza di oggi, così sembrò allo schieramento di centro-sinistra che lo pose nel suo programma elettorale del 1996, e così sembrò anche alla maggioranza di centro-sinistra allorché il senatore Salvi sostenne il premierato nella Bicamerale D’Alema. E poi, guardando fuori e sempre tenendo presente la lista dei poteri-doveri del Primo Ministro, così sembra anche all’Inghilterra, alla Spagna, alla Svezia e a non so quanti altri paesi occidentali. Tutto è discutibile naturalmente. Ma non è, a mio avviso, un’obiezione fondata quella di chi sostiene che il governo del Primo Ministro rappresenterebbe una “deriva plebiscitaria”, o addirittura una forma di “peronismo all’italiana”. Se si spoglia la valutazione dalla polemica politica o da campagna elettorale, credo si possa affermare con convinzione che il potere di deterrenza dello scioglimento della Camera in capo al Primo Ministro – ché di ciò si tratta, di un potere che è tale perché non si usa, come mai è stato usato nei grandi comuni e in tutte le regioni – introduce un equilibrio virtuoso nel rapporto Parlamento-premier. Lo diceva già Walter Bagehot nel 1867, e non credo che ci sia qualcuno seriamente disposto a considerarlo un peronista ante litteram. D’altro canto, ai critici, se sono sereni, si può osservare che il modello del premierato semplicemente accompagna, non corregge, men che meno stravolge, l’evoluzione del nostro sistema politico, che ormai dal 1994 vede candidati Premier indicati dalla maggioranza dei consensi succedersi ad altri candidati premier. Non solo. Ai critici si può soprattutto osservare che questo modello è virtuoso e lo sarebbe stato anche in passato, sol che fosse stato formalizzato da una norma costituzionale. Come dimenticare che, se la riforma fosse stata allora in vigore, il primo governo Berlusconi, con molta probabilità, non sarebbe caduto nel 1994? E come dimenticare che lo stesso, con altrettanta probabilità, sarebbe accaduto con il governo Prodi? E ancora, come giustificare dal punto di vista prima etico e poi politico il fenomeno di un elettorato, cioè tutti noi, che vuole essere governato da un pemier con una certa maggioranza e, dopo poco, senza che nessuno lo abbia consultato, si trova invece ad essere governato da un altro premier con una diversa maggioranza? Il trasformismo (oggi si dice il “ribaltonismo”) non è un male che un modello costituzionale dovrebbe evitare? Oppure, zitti zitti, si ritiene che, tutto sommato, un po’ di trasformismo, prima o poi, potrebbe ancora far comodo? E la stabilità di governo non è anch’essa un bene da tutelare? Pensavo che non ci fosse più nessuno che seriamente credesse che si possano prendere misure rapide, incisive, coraggiose, in qualunque campo, quando i primi ministri vanno e vengono come attraverso una porta d’albergo. E’ passato il tempo per queste girandole, il mondo preme. 4. Un’ombra sul federalismo Se ho pochi dubbi sul modello del premierato, salvo qualche riserva qua e là per evitare che sia troppo rigido, ne ho qualcuno sulla forma di stato, il federalismo. Vedo luci e ombre, di cui una, a mio avviso, assai oscura. Cerco di indicarle, anche qui avendo di mira solo considerazioni di equilibrio del modello prescelto dal Senato. La riforma del Titolo V della Costituzione, approvata in extremis nella scorsa legislatura, realizzò quella che si può chiamare la “grande devoluzione”, per la quantità e qualità delle materie deferite alla competenza legislativa delle Regioni. Fu evidente a tutti, anche ai suoi sostenitori, che quella riforma, ancorché importante e richiesta, era incompleta e lacunosa. Essa ripartiva le materie, che inevitabilmente hanno confini incerti, e creava una vasta zona di competenze intermedie (le cosiddette “materie concorrenti”, in un numero imprecisabile da più di 20 fino a 40). Ma, limitandosi solo a ciò, quella riforma non prevedeva il “luogo” del federalismo (il Senato federale) e non prevedeva lo “strumento” del federalismo (la tutela dell’interesse nazionale, che fu cassata dalla Costituzione del 1948).

I rischi di questa riforma erano facilmente prevedibili e furono infatti previsti. In particolare due: che il luogo del federalismo si sarebbe trasferito alla Corte costituzionale e lo strumento del federalismo sarebbe diventata la giurisprudenza costituzionale. Cioè, un luogo e uno strumento impropri e inidonei, perché non politici.

Quanto impropri lo si può comprendere esaminando due volumi che il Servizio studi del Senato ha predisposto. Da essi risulta che, in poco più di due anni, la Corte, in materia di conflitti di competenza Stato-Regioni, ha emesso 103 pronunce e ha al suo esame 115 ricorsi pendenti. Per dirla in termini plastici, ciò significa che per 218 volte un parlamentare ha approvato una norma, per altrettante il Capo dello Stato ha promulgato e la Gazzetta Ufficiale ha pubblicato, e poi la norma o non c’era o non era più quella o aveva una certa interpretazione. Dov’è finita la sovranità del Parlamento? Dove la sua centralità? Dove la responsabilità politica del Governo? Dove la certezza normativa? Sono andate in trasferta dall’organo rappresentativo della sovranità popolare, il Parlamento, ad un organo tecnico-giuridico, la Corte. Con l’aggravante che un organo tecnico-giuridico che deve dirimere controversie il più delle volte tipicamente ed eminentemente politiche rischia, suo malgrado, di trasformarsi in un organo politico, e di generare, contro la propria volontà, tante deprecabili polemiche.

La riforma del Titolo V della scorsa legislatura aveva anche un altro serio inconveniente. Essa conteneva, all’art.116, una sorta di “diritto al sorpasso” (qualcuno lo ha chiamato “diritto di secessione”), secondo cui quelle regioni che lo avessero voluto avrebbero potuto chiedere e ottenere dalla maggioranza politica pro tempore “forme e condizioni particolari di autonomia”, ivi comprese l’acquisizione di competenze esclusive dello Stato.

Corregge questi difetti la riforma approvata in Senato? Intanto, essa contiene una “nuova devoluzione” alle Regioni, assai più piccola della precedente, salvo che su un punto, che è ancora da chiarire, la “polizia locale”. Poi, la riforma prevede il Senato federale; rafforza la rappresentanza territoriale con l’elezione contestuale dei senatori e dei presidenti di regione; reintroduce in una qualche forma la tutela dell’interesse nazionale; elimina il “diritto al sorpasso” delle regioni ricche su quelle povere; diminuisce il numero dei senatori eletti a 200; elimina il rapporto fiduciario con il Governo. Dunque, la riforma contiene tante luci. Ma torno al punto, che non intendo eludere: il federalismo approvato dal Senato corregge i difetti della riforma del Titolo V? È adeguato rispetto alle esigenze dichiarate? La mia risposta è: no, non completamente. Perché?

In sintesi, la mia obiezione è che si crea uno squilibrio istituzionale. Perché il Senato, avendo competenza esclusiva o paritaria su tutte le materie concorrenti, sui diritti di libertà, e, finché non sia realizzato il federalismo fiscale, anche sulla legge finanziaria, ha un potere enorme non controbilanciato nei confronti del Governo. Si consideri la situazione.

In primo luogo, il Senato federale si chiama “federale” e deve svolgere funzioni di raccordo delle Regioni tra loro e fra le Regioni e lo Stato, ma in esso uno dei due soggetti che si devono raccordare non è rappresentato direttamente. È per questo che ho sostenuto in un incontro con i Presidenti delle Regioni che la presenza dei presidenti di regione sarebbe indispensabile, purché ad essa faccia da contrappeso la tutela chiara dell’interesse nazionale.

Inoltre, questo Senato ha competenze su materie come le grandi opere pubbliche, la scuola, la ricerca scientifica e tecnologica, la concorrenza economica (di fatto, tutta l’economia), l’energia, la previdenza complementare e integrativa, il mercato del lavoro, il commercio con l’estero, e così via. In pratica, questo Senato ha competenza su pressoché tutte le questioni che sono oggetto di un programma e di una politica di governo.

Infine, questo Senato che ha competenza sulla politica di governo, non dà o nega la fiducia al governo.

Quali effetti si possono produrre? Penso a tre.

Primo. Si genera uno squilibrio fra istituzioni e si apre una contraddizione nel sistema: quella governabilità che si acquista con i poteri del premier si perde tutta con i contropoteri del Senato. Chi ha parlato di un “premier onnipotente” dovrebbe riconoscere che siamo invece di fronte al paradosso di “un premier potente depotenziato”: come passerà il Governo in Senato? Passerà come al tempo del giolittismo, e cioè negoziando – e pagando – caso per caso, volta per volta?

Secondo. Questo sistema non diminuisce quella proliferazione abnorme di ricorsi alla Corte per conflitto di competenze. Non essendo state diminuite le materie concorrenti, non essendo stata introdotta una netta clausola di flessibilità a tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica, ma bensì una farraginosa “tutela censoria” di quelle regioni che andassero fuori strada, e, per di più, non essendo presenti in Senato i diretti interessati, è difficile pensare ad una diminuzione dei conflitti Stato-Regioni, mentre è più facile pensare ad una conflittualità permanente Camera (Governo)-Senato.

Terzo. E’ un effetto cui ho già fatto riferimento. Negoziare in Senato, per il Governo, significa, alla fine, spendere per acquisirsi il consenso di interessi corporati. Non c’è il rischio che un federalismo siffatto aumenti i costi, anziché diminuirli?

Concludo, e ripeto una formula che ho già usato. Occorre più federalismo e più governabilità. Rispetto ai due scopi dichiarati della riforma, essa non può ancora dirsi compiuta. Ricordo che siamo al primo dei quattro passi previsti e che c’è tempo per cambiare, anche se, lo dico con rammarico, a cambiare il Senato avrei desiderato che fossero stati protagonisti i Senatori. Di questo tempo occorre approfittare. Sarebbe sbagliato sia considerare il testo già definito, perché in realtà è coperto da un’ombra assai seria, sia rigettarlo totalmente, perché invece è una riforma assai promettente e, per la parte del premierato, utile e adeguata. L’unica cosa per cui non c’è tempo è credere che abbiamo ancora tanto tempo o che possiamo perdere altro tempo.

 

 

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