Interventi

Marco Biagi: Un progettista intellettuale

Roma, 19 marzo 2003

Testo del discorso pronunciato alla commemorazione di Marco Biagi, Sala Zuccari

Quando lasciano la terra dei vivi, gli uomini – soprattutto un uomo come Marco Biagi che ci ha lasciato ammazzato da mano assassina – sopravvivono in almeno due modi: negli affetti e nella memoria di chi li ha conosciuti, nella testimonianza e nell’eredità che hanno lasciato di sé.

Anche quando la prima forma di sopravvivenza si affievolisce – e ciò accade inesorabilmente perché i sentimenti sono nemici del trascorrere del tempo – la seconda forma di sopravvivenza resta. Anzi, talvolta si accresce, perché il destino delle idee professate e delle opere compiute è quello di avere vita propria, di essere spesso riprese quando sembrano dimenticate, di dare frutti quando appaiono essiccate.

Del primo modo di essere ancora tra noi di Marco Biagi non posso parlare. Ne possono dire chi gli è stato vicino e chi ne ha vivo ricordo personale, a cominciare dalla Signora Marina e dai suoi figli, ammirevoli per la discrezione e il riserbo con cui ne custodiscono la memoria. E ne possono parlare i suoi amici, colleghi, collaboratori, maestri, che con lui hanno vissuto esperienze di vita e di lavoro.

Ma del secondo modo di sopravvivere di Marco Biagi possono parlare tutti: quelli che si occupano delle questioni delle quali lui si occupava, quelli che si sono imbattuti nel suo pensiero, quelli che lo hanno letto e seguìto, o quelli che semplicemente sono interessati alle cose politiche.

Sono due le testimonianze che, a mio avviso, egli lascia alla nostra riflessione.

La prima riguarda l’esercizio del lavoro intellettuale o il mestiere dell’intellettuale. Presso alcune culture che sopravvivono stanche soprattutto in Europa, “intellettuale” è sinonimo di chi sa, di chi, sapendo, diffonde o predica, e di chi, avendo predicato, si attende che altri agiscano in modo conforme. In questo senso, l’intellettuale è un solitario: basta a sé e non gli occorre altro che la propria supposta sapienza.

Ma in un altro senso, un intellettuale è una figura diversa. È uno che conosce per prove, per tentativi, per esperimenti. È uno che diffonde le proprie idee per confrontarsi, misurarsi, correggersi. È uno che considera l’uditore non come una platea di risonanza da indottrinare, ma come un interlocutore critico da convincere.

Per l’immagine che si ricava dai suoi scritti e dal suo impegno, Marco Biagi era di questa seconda tempra di intellettuale. Forse perciò non si definiva un intellettuale affatto e forse perciò, conoscendo bene l’abuso del termine, egli non lo usa mai nei suoi scritti e interventi. Nondimeno, era un intellettuale della migliore razza. Un tecnico, un artigiano delle idee, un progettista. Quello che elabora un pensiero e poi lo mette alla prova, lo corregge, lo sostiene.

Ci vuole forza ad essere – anzi, a fare – l’intellettuale in questo secondo modo. Ci vuole purtroppo ancor oggi coraggio a schierarsi dalla parte che i più, ideologicamente, non ritengono giusta. E ci vuole serenità e limpidezza nel tirare avanti per la propria strada, nonostante i pregiudizi, le critiche, le accuse, le denigrazioni. Chi conosce gli aspetti deteriori della nostra vita culturale e accademica – comprese l’inerzia e la pigrizia da cui sono spesso affette – può facilmente immaginare quale forza d’animo e d’intelletto abbia mosso Marco Biagi. E può percepire il suo dolore e la sua delusione di fronte a chi si rifiutava di dialogare, o anche solo leggere e comprendere. Marco Biagi merita rispetto anche per questo: perché quel dolore, quella delusione, li superava, non se ne faceva vincere, li assorbiva con fermezza ma senza arroganza e con un carattere aperto, gioviale, disponibile, sincero.

Inerzia e pigrizia sono purtroppo sempre in agguato nelle nostre menti e nei nostri comportamenti. Vi sono nel vocabolario politico corrente termini ed espressioni che hanno perso i significati tradizionali o sono restati con le sole connotazioni senza le rispettive denotazioni. “Destra”, “sinistra”, “conservatore”, “progressista”, “riformista”, ma anche “competizione”, “mercato”, “flessibilità”, “solidarietà”, fino a quelli apparentemente più precisi come “parità scolastica” o “separazione delle carriere”, sono termini che hanno ormai solo valore simbolico, positivo per gli uni, negativo per gli altri. Termini che servono più per ammiccare, alludere, evocare, insinuare, che per dire con franchezza la cosa cui si riferiscono.

Còmpito del tecnico dell’intelletto – dell’intellettuale, appunto – non è quello di fermarsi al vocabolario, ma di andare oltre, fino ai concetti, e dai concetti ancora oltre, fino alle cose denotate. I problemi reali non sono mai problemi verbali, e i problemi verbali il più delle volte derivano da incrostazioni mentali. Se si prova, magari grazie a quel metodo comparato di cui era maestro Marco Biagi, che una certa soluzione è efficace e produce risultati desiderabili, che importa che essa fino a ieri sia stata battezzata con una parola scomunicata? E se si trova che una certa politica, condotta da certi uomini o da certi governi, ha conseguenze utili, che importa che essi siano etichettati in un modo anziché in un altro? Oppure le parole devono avere la meglio sulle cose?

A Marco Biagi le etichette non importavano niente, a costo di essere considerato traditore da saccenti custodi e arcigni sacerdoti di un antico vocabolario. L’uso magico delle parole gli era estraneo. In questo era laico: sapeva che un problema ha più di una soluzione e che la soluzione migliore è quella che resiste alla prova dei fatti, non quella che supera l’esame di una Crusca ideologica che si autoconsidera l’unica politicamente corretta.

Se si sentiva offeso, Marco Biagi, non era perché era criticato, ma perché era semplicemente etichettato. “Del Libro Bianco del Governo in materia di mercato del lavoro – scrisse il 9 ottobre 2001 sul “Sole-24 Ore”, parlando del capolavoro della sua vita – è più che legittimo avere opinioni diverse, anche aspramente critiche. Tuttavia sarebbe auspicabile che quanti esprimono valutazioni avessero almeno la bontà di leggerlo”. Oppure: “demonizzare una formula senza approfondirne i contenuti serve solo a sviare il confronto”. Oppure ancora, a proposito di certe critiche mossegli da un collega: “peccato, davvero peccato, che il dibattito scada a questi livelli di disinformazione”.

Anche nella polemica, il tono di Biagi era sempre misurato e civile. Per stile, gli riusciva difficile scendere sul terreno della rissa, accettare, come scrisse una volta, un “clima da corrida”.

Questo per la testimonianza intellettuale di Marco Biagi per come io la recepisco.

Ce n’è un’altra, quella relativa non al suo stile e al suo metodo, ma al contenuto delle sue idee. Era un contenuto politico, come inevitabilmente accade quando si tratta di cose relative al lavoro viste dal punto di vista di un “giurista progettuale”, come lui diceva del suo maestro Federico Mancini, o di un “riformista progettuale”, come ha detto di lui il suo allievo e poi collega e amico Michele Tiraboschi, che gli ha dedicato un libro schietto e commosso.

Socialista e cattolico, Marco Biagi si era posto il problema di come modernizzare il mercato del lavoro senza ledere gli autentici princìpi di tutela dei lavoratori ma anche senza trasformarli in garanzie corporative. Affrontava così il futuro del nostro paese in un contesto europeo e globale. E lo faceva culturalmente ben attrezzato. Da buon conoscitore del diritto comparato invocava la comparazione allo stesso modo di un fisico che si serve della sperimentazione. “Guardando ad altri ordinamenti – scrisse nel 2001 – è possibile verificare in anticipo l’esito applicativo delle tecniche regolatorie in via di progettazione”.

Su questo terreno, che è quella della flessibilità del mercato del lavoro, delle nuove figure di lavoratori, delle diverse tutele, Biagi produsse il Libro Bianco, di cui sono conseguenze la Legge Biagi ora approvata e quella in via di approvazione, compresa la revisione del famoso art.18 dello Statuto dei lavoratori. Elaborò uno Statuto dei lavori, fornì suggerimenti, consulenze, progetti. Fu molto apprezzato e stimato da uomini e governi di sinistra e di destra. Amato dai suoi allievi, come accade ai maestri naturali, ammirato dai suoi colleghi, rispettato dalla comunità scientifica internazionale. Ma fu anche ostacolato, come accade spesso a chi, pur tenendo fermi i princìpi e valori, tenta nuovi strumenti per realizzarli. Fu incompreso, come succede a chi ha il coraggio di superare situazioni incrostate di ideologia. Fu denigrato, come se fosse stato un avversario o un “collaterale” al padrone, secondo una vecchia terminologia, morta nel lessico politico e sindacale ma che ancora compare sulla bocca di alcuni.

Non se ne capacitava. “Cerchiamo di ristabilire una versione obiettiva delle cose – scrisse in un articolo del 28 novembre 2001 sempre sul “Sole-24 Ore” -: nei paesi in via di sviluppo esiste una legislazione a tutela del lavoro in gran parte ignorata, analogamente a quella legislazione garantista in stile anni Settanta che garantisce all’Italia uno dei più floridi mercati del lavoro clandestino esistenti in Europa”.

Come uscire da questa situazione? Mantenere le antiche tutele? Aggiungerne altre addirittura nel nome della dignità della persona? Ma se così facendo né si produce nuovo lavoro né si rende competitivo il Paese, a che scopo insistere? Per omaggio ad un’Italia che non c’è più? Per tutelare un tipo di lavoratore e di azienda che sono scomparsi? Per rendere omaggio ad un’ideologia superata dalla storia? In realtà – scrisse ancora Marco Biagi il 28 novembre 2001 – dietro al rifiuto dei misoneisti, “il progetto è uno solo: non cambiare nulla”. Ma chi non vuole cambiare nulla e vuol vivere nella rendita dell’inerzia, abbia almeno il coraggio di discutere seriamente le alternative di cambiamento e riforma. Discutere, e discutere senza insultare. “Avvicinare la situazione dei ‘vendederos de estrada’ messicani ai lavoratori super-protetti dell’articolo 18 – scrisse ancora in quell’articolo – è davvero un insulto ai primi e una presa in giro per i secondi. L’articolo 18 sarebbe la diga che bisogna difendere a tutti i costi: peccato che quella diga impedisca a tanti soggetti di entrare nel mercato del lavoro”.

Questo era il massimo di polemica che Biagi si concedeva. Civile, rispettosa, educata. Scrisse alla fine dello stesso articolo: “delle guerre di religione e del conseguente fanatismo, anche se relativo all’articolo 18, nessuno sente davvero il bisogno”.

Sciaguratamente, lo sentirono, questo bisogno di fanatismo, alcuni vigliacchi che vollero uccidere un uomo coraggioso, la sera del 19 marzo 2002, quando, dopo una giornata di lavoro tornava a casa, solo, isolato e tutelato soltanto dalla sua bicicletta. Non è importante che se ne pentano loro, è importante che lo ricordiamo noi.

 

 

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