Lo sguardo di Agostino è un buon antidoto alla superbia del secolarismo
di Sergio Belardinelli
Chiunque abbia interesse al ruolo e alla funzione della fede in un mondo secolarizzato farebbe bene a leggersi questo libro di Marcello Pera in uscita da Morcelliana: Lo sguardo della caduta. Agostino e la superbia del secolarismo. I limiti della ragione, la giustificazione delle norme morali, il rapporto della religione con la politica, l’uso della forza in materia religiosa, la natura e la pratica della conoscenza scientifica: tutto viene vagliato in questa “conversazione” con Agostino, un gigante del pensiero occidentale trovatosi a vivere a pensare in un’epoca simile alla nostra quanto a presunzione di poter raggiungere il bene e la felicità, nonché uno stato ottimo, grazie alla sola umana ragione.
La superbia è non a caso il tratto che secondo Pera accomuna il paganesimo del tempo di Agostino al secolarismo anticristiano del nostro. Può l’uomo liberarsi dai suoi mali? Per i classici, in particolare Platone e Aristotele, sì, per Agostino no. Dopo il peccato originale un senso di caducità insormontabile con le sole forze umane grava secondo il santo d’Ippona sulla nostra natura; impossibile sollevarci verso il bene e la giustizia senza l’aiuto di Dio, senza la sua Grazia. Un pensiero spinto a volte fino al limite del pessimismo più estremo e dell’eresia, che però secondo Pera potrebbe esserci estremamente utile per comprendere e forse anche per uscire dal pantano in cui la cultura occidentale si è cacciata nel momento in cui ha incominciato a perseguire la verità, il bene, la giustizia in aperta ostilità a Dio e alla fede cristiana.
Detto in estrema sintesi, l’agostiniano “sguardo della caduta”, come lo chiama Pera, potrebbe alimentare ancora oggi la consapevolezza necessaria a non pretendere dalla ragione più di quanto essa possa dare, a non farsi irretire dalla “scienza che gonfia”, a non superare certi limiti, a non farsi sviare dall’ottimismo implicito nella ricerca di una assai improbabile comunità politica perfetta. Come diceva Wittgenstein, quand’anche tutte le nostre domande scientifiche ricevessero risposta, i problemi della nostra vita non sarebbero ancora minimamente sfiorati.
La realtà non è riducibile alla ragione, esiste spesso una frattura insanabile tra reale e razionale, la virtù, almeno in questo mondo, non sempre coincide con la felicità, lo stato è semplicemente un “male necessario” per quel poco o tanto che riesce a garantire di ordine sociale, insomma la città di Dio non è la città degli uomini. Questa, come Pera mostra assai bene, la teologia politica di Agostino, tanto complicata nelle sue possibili articolazioni quanto semplice nei principi che la sorreggono: l’uomo è responsabile del peccato originale, tale peccato è inestirpabile con soli sforzi umani e contamina ogni umana attività, l’uomo ha bisogno della grazia di Dio.
Alle conseguenze politiche di questo “sguardo” agostiniano vengono dedicati i capitoli secondo e terzo del libro, intitolati rispettivamente “Lo sguardo della caduta e il liberalismo” e “Stato, Religione e Coercizione”. Con una mole impressionante di riferimenti ai testi agostiniani e un’acribia fuori del comune, il lettore viene continuamente sollecitato a vedere le analogie tra la visione agostiniana e quella di certo liberalismo contemporaneo, ma anche e più ancora le irriducibilità, nonché la necessità di riprendere lo sguardo agostiniano se vogliamo ancora salvare il meglio della tradizione politica del nostro Occidente. Lo stesso discorso, più o meno, viene sviluppato nel capitolo quarto in riferimento alla ragione e alla scienza. Ma qui vorrei limitarmi al confronto di Agostino con il liberalismo.
“I due sguardi, dice Pera, partono dalla medesima antropologia negativa –più pesante e rigida in Agostino, più ottimista e malleabile nei liberali – e ne traggono conclusioni tra loro assimilabili riguardo alla società, alla politica e allo stato”. Entrambi condividono l’uomo come un animale affetto da “socievole insocievolezza”; entrambi considerano lo stato un semplice male necessario; entrambi diffidano di qualsiasi concezione salvifica della politica; entrambi affermano il primato dell’individuo sullo stato; entrambi escludono lo stato etico, totalitario, paternalista, e altro ancora. Sennonché i liberali si sono poco a poco “distaccati” dal cristianesimo e da Agostino, pretendendo che il liberalismo potesse stare in piedi in modo “autosufficiente” e finendo così, magari senza volerlo, col portare acqua al “dispotismo dei governanti”.
L’idea di autonomia individuale, il cosiddetto “stato minimo”, la preminenza del giusto sul bene, l’ideologia dei diritti dell’uomo, una certa idea di laicità, diciamo pure gran parte dei presupposti che animano le tradizioni liberali oggi più in voga, da Nozick a Rawls, da Habermas a Rorty, tanto per fare i nomi ai quali si riferisce lo stesso Pera, dal momento che escludono o marginalizzano Dio e il cristianesimo, finiscono per essere a suo avviso tante manifestazioni della stessa superbia di cui si diceva all’inizio. Una superbia che non vede ciò che inevitabilmente caratterizza anche il liberalismo ateo nel quale essa si esprime.
Per dirla con le parole di Pera, “il teologo e filosofo Agostino vide un problema che noi oggi preferiamo non vedere, sol perché non sappiamo come risolvere. Il problema è che, necessariamente, una fede, un sistema di valori, è alla base dello stato secolare e che non ogni sistema di valori è equivalente a qualunque altro. Serve a poco dire che noi non consideriamo più il nostro sistema come unico e vero. ‘Nostro’ significa però che ne abbiamo fede, e se ne abbiamo fede siamo tenuti a difenderlo contro i sostenitori di altri sistemi”.
E’ un punto molto controverso, questo, sul quale non posso dilungarmi. Pera forse esagera a pensare che tutta la tradizione liberale dell’occidente condivida la stessa indifferenza o ostilità al cristianesimo degli autori che egli cita. Sta di fatto che, dal punto di vista filosofico, il suo ragionamento è impeccabile: una qualche “fede” fa da sfondo a qualsiasi posizione politica. Guerra di religione inevitabile dunque? Per fortuna no, proprio perché alcune fedi, la cristiana ad esempio, tendono a escluderla più di altre, specialmente quando si tratta di guerra di sopraffazione. Ma bisogna esserne consapevoli. E soprattutto bisogna essere consapevoli che nemmeno il cristianesimo la esclude in linea di principio, vedi quando si tratta di difendersi.
Ecco, per quanto mi riguarda, ho letto questo libro come un invito a una maggiore consapevolezza. L’invito che Pera ci rivolge a riprendere lo sguardo di Agostino, lo sguardo della caduta, non è soltanto un omaggio a una concezione realistica e quasi tragica del mondo; in senso proprio non è nemmeno un’esortazione a rimettere il cristianesimo al centro della nostra vita; è piuttosto un monito rispetto “ai nuovi déi pagani a cui tributiamo i nostri sacrifici, culti, riti individuali e di massa”: secolarismo, scientismo, liberalismo, ecologismo, neo-umanesimo, transumanismo, diritti individuali senza doveri, tolleranza senza limiti e tanti altri ancora.
Proprio scorrendo questo lungo elenco di nuovi “dèi pagani”, ai quali Pera si riferisce, mi viene da fare un’ultima, forse un po’ deprimente considerazione: la superbia pagana contro la quale combatteva filosoficamente Agostino era quella di Platone, Aristotele e dello stoicismo, giganti anch’essi del pensiero umano; la superbia pagana dei nostri giorni è un po’ diversa. Non soltanto perché tra i filosofi contemporanei non si vedono all’opera giganti di quella portata, ma soprattutto perché da almeno una cinquantina d’anni la superbia è diventata fenomeno di massa e, in quanto tale, un esplosivo che rischia di far saltare per aria la struttura stessa della cultura occidentale.
Leggi anche su Il Foglio