IMT Alti Studi Lucca, 10 marzo 2005
Lectio magistralis
1. La fine di Westfalia
Per molto tempo, in tema di rapporti fra religione e politica, il mondo è restato pressoché fermo alle decisioni prese nell’ottobre 1648 con la pace di Westfalia, allorché gli stati nazionali ebbero piena sovranità, le confessioni cristiane furono chiamate a convivere, mentre agli equilibri internazionali fu imposto il vincolo di prescindere dalle questioni religiose.
Da quel momento, in Europa, i governanti rimasero il più possibile fedeli alla laicità, la religione cominciò a ritirarsi dalla sfera terrena, e le guerre, se pur non scomparvero, almeno non furono (o comunque non sembrava più che fossero) di religione. Era – o sembrava – finalmente la pace, dopo tanti anni di massacri. Un principio dualistico fra tipi di verità distinte e diverse si impose dappertutto: verità di fede e verità di scienza; verità di morale e verità di diritto; verità divine e verità di stato; verità private e verità pubbliche. E con il principio dualistico s’impose anche un principio di non interferenza. Che cosa puoi e vuoi saperne tu frate, prete, vescovo, papa, di astronomia, di meccanica, di biologia, di psicologia? Nulla – osò dire Galileo -, a meno che tu non scenda dalla tua “sfera salvifica” alla mia “sfera scientifica”. E, analogamente e per estensione: tu, frate, prete, papa, eccetera, che cosa puoi e vuoi saperne di reggimenti di stati, di governi, di società, di istituzioni? Nulla – aveva già osato dire Machiavelli – a meno che non ti adatti alle leggi della mia “realtà effettuale”. Diviso in così tante sfere separate, il mondo, finalmente, andava per il verso giusto. Purtroppo, come è noto, il mondo va come gli pare. E da qualche tempo gli pare di dover andare diversamente da come è andato per più di tre secoli. Proprio mentre gli intellettuali celebrano i fasti della post-modernità, gli uomini vivi mettono in questione i fondamenti della modernità. Non solo oggi l’Islam predica e pratica la sharia, il mondo intero è percorso da fremiti di religiosità e rivendicazioni di ruolo per la fede. Come spiegare questi fenomeni e come giudicarli e soprattutto come venirne a capo?
2. La separazione come principio
Cerchiamo intanto di guardare le cose più da vicino, nell’ambiente che ci è più familiare. In Occidente, mentre per gli Stati Uniti sembra ritornare calzante la vecchia definizione di G.K. Chesterton – «l’America è una nazione con l’anima di una chiesa» -, l’Europa sembra la meno sensibile al fenomeno della rinascita religiosa. E però anche qui si osservano fenomeni nuovi. Gruppi sempre più vasti di popolazione restano sempre più sconcertati di fronte a quei governanti che sembrano considerare questione a loro estranea che i nostri popoli vanno in chiesa, attendono alle funzioni, praticano culti e riti, cercano guide spirituali. Lo spettacolo del laicismo imposto con la legge – nessun simbolo religioso esposto nelle scuole e nei luoghi pubblici, quasi che fosse la sigaretta, la quale “nuoce gravemente alla salute” – è sempre meno accettato. Molti si chiedono se sia davvero tollerante difendere il diritto alla moschea per gli immigrati senza chiedere il rispetto del proprio luogo di culto cristiano. Se sia veramente liberale consegnare l’esposizione del crocifisso alla mercé di una decisione amministrativa. O perché sia apparentemente più facile partecipare ad un “gay pride” che a una processione. O più disdicevole offendere la religione degli altri che la propria. Forse la gente non pensa così. Forse ha altri sentimenti ed è sconcertata. Per evitare che lo sconcerto ci trovi impreparati, dobbiamo ripensare quelle categorie interpretative della cultura di Westfalia che abbiamo bevuto col latte materno e attrezzarci diversamente. Non credo che dovremmo mettere in discussione la separazione fra Stato e Chiesa, che è un moderno istituto occidentale prezioso e da proteggere scrupolosamente, perché gli Stati teocratici sono dispotici e illiberali. E neppure credo che dovremmo respingere la separazione fra politica e religione. E però, dopo tanta desuetudine e di fronte al fenomeno della rinascita religiosa, una domanda, in particolare, dobbiamo tornare a porci. Che cosa, propriamente, significa la separazione? Intanto, separazione non significa divisione. Ciò è impossibile in linea di principio e anche di fatto. Si consideri, ad esempio, un legislatore che sia chiamato a definire un reato, poniamo l’omicidio. Un reato individua un disvalore sociale, questo chiama il corrispondente valore, e il valore chiede la sua giustificazione. Alla fine, il reato di omicidio rimanda al comandamento “Non uccidere”, e ciò significa che la sfera della politica, per quanto separata, non può essere divisa dalla sfera della religione. Inoltre, separazione non significa neppure estraneità. Si consideri un altro caso, quello del legislatore che deve prendere posizione in tema di aborto o di qualunque altro tema bioetico. In base a che cosa deciderà? Se è un legislatore democratico e non dispotico, deciderà in base ai sentimenti più diffusi, alle opinioni più radicate, alle convinzioni più sentite nella società e dunque in base ai valori più accettati e condivisi, compresi i valori religiosi. Se la separazione fosse estraneità, il legislatore non avrebbe princìpi cui riferirsi e con cui decidere. In generale, vale una regola: una religione, la quale sia costume e pratica e abito inevitabilmente tracima oltre la soggettività, va oltre la sfera privata degli individui. E quella religione che da confessionale diventasse civile – cioè professata e praticata da tutti o dai più – tracimerebbe più di tutte, perché i suoi insegnamenti diventerebbero costumi sociali, al tempo stesso politici e religiosi. Ma se non è divisione e non è estraneità, come allora dobbiamo altrimenti considerare la separazione fra politica e religione? Credo che il modo intellettualmente più appropriato e praticamente più utile sia di concepirla come un principio di convivenza, un imperativo di tolleranza. Questo principio o imperativo dice che c’è un limite oltre il quale la fede religiosa trasportata nell’àmbito politico produce intolleranza e diminuisce la libertà di tutti e ciascuno. Ma il principio o imperativo non fissa quel limite, non dice dove deve essere posto: esso è un confine che si sposta continuamente con il cambiare storico delle nostre coscienze, delle nostre sensibilità, delle nostre convenienze. È laico quello Stato che riconosce l’esistenza di quel limite, è fortunato quello Stato laico che, di volta in volta, lo fissa al confine giusto.
3. L’Europa laicista e dei concordati
Lo stanno mettendo, questo limite, nel confine giusto gli stati occidentali? Hanno consapevolezza che la cultura separatista di Westfalia è in crisi e perciò devono dare spazio diverso ai sentimenti religiosi dei propri popoli? Per l’Europa, la risposta è assai incerta. Ancor oggi, posta di fronte alla impegnativa e coraggiosa domanda “Chi sei?”, “Chi fur li maggior tua?”, l’Unione europea, al momento di darsi una Costituzione, ha preferito tirarsi fuori d’impaccio e imboccare la vecchia strada dei concordati fra potere temporale e potere religioso. C’è un punto che – assieme al rifiuto del richiamo alle radici giudaico-cristiane nel Preambolo del Trattato – la dice lunga su come il laicismo degli stati abbia volentieri imposto e le Chiese, compreso quella cattolica, volentieri accettato la formula di questo compromesso temporale. È l’art.52 del Trattato costituzionale europeo. Esso dice: «L’Unione rispetta e non pregiudica lo status di cui godono negli Stati membri, in virtù del diritto nazionale, le chiese e le associazioni o comunità religiose». Si osservi che questo articolo non è inserito nel Titolo II (“Diritti fondamentali e cittadinanza dell’Unione”), ma è l’ultimo del Titolo VI (“La vita democratica dell’Unione”), nientemeno collocato dopo l’articolo su “La protezione dei dati di carattere personale”. Si osservi inoltre che, per questo articolo, chiese, associazioni filosofiche, organizzazioni non confessionali sono tutte sullo stesso piano. E si osservi infine che l’articolo parla solo di “status” secondo il “diritto nazionale”. Che cosa significa? Significa che l’art.52, anziché affermare princìpi fondamentali dei cittadini, tutela diritti di chiese o associazioni, e non riguarda la funzione della religione nella società, bensì il ruolo degli enti religiosi negli Stati. In altri termini, significa che l’Unione rispetta, nei singoli Stati membri, le religioni in essi ammesse secondo le modalità da essi definite. In altri termini ancora, significa che l’Europa del 2004 torna all’Europa del 1555: cuius regio, eius religio. Questa è la formula dei concordati. Che sia andata bene agli stati laicisti si comprende, che sia stata accettata dalle Chiese, anche dalla Chiesa cattolica, forse si comprende pure, data l’attrazione dei benefici temporali, ma che ciò basti a dare forma istituzionale, cittadinanza politica, accoglienza civile alla rinascita religiosa europea è fortemente da dubitare. Se Giovanni Paolo II ha ragione – «l’Europa si riconosca nelle sue radici cristiane!» – la Chiesa cattolica per prima dovrebbe avere maggiore coscienza e trarre da lui maggiore coraggio. Perché invece l’Europa non ha maggiore coraggio? Pesa su di essa la pigrizia intellettuale della sua cultura. Il relativismo e il nichilismo hanno prodotto l’indebolimento della nostra identità religiosa e, con essa, della nostra identità tout court. Contro questa malattia dell’Occidente, soprattutto europeo, mi sono già espresso altre volte e qui mi tocca solo ripetermi. Oggi l’uomo occidentale è un penitente che si batte in continuazione il petto. Se ci sono fondamentalisti e terroristi che gli hanno dichiarato la jihad, allora – dice il penitente – deve esserci una ragione. Se c’è una ragione, allora nasce da uno squilibrio sociale. Se c’è uno squilibrio sociale, allora qualcuno l’ha provocato deliberatamente. Se qualcuno l’ha provocato deliberatamente, allora l’Occidente nazionalista, imperialista, colonialista è colpevole. E se l’Occidente, alla fine, è colpevole di aver provocato la jihad, allora si merita la jihad. L’Occidente trova sempre un “ma” per bloccarsi. Alcuni gruppi islamici ricorrono al terrore? Brutta cosa, ma l’imperialismo americano è di per sé terroristico. Rapiscono e uccidono? Azione da condannare, ma si dimentica che sono resistenti che trattano bene gli uomini e le donne di pace. Ricorrono a kamikaze? Azione esecranda, ma lo fanno per disperazione. Ora che, anche in Europa, la rinascita religiosa torna a riaffacciarsi nelle coscienze individuali e a voler reclamare i suoi diritti nella società civile e negli stati, si scopre che questa cultura della resa non rappresenta solo un freno alla nostra identità. Essa è anche un abbassamento delle nostre difese di fronte all’esplosione, talvolta violenta e intollerante, delle identità altrui.
4. La crisi di identità
Dobbiamo allora tornare a porci la domanda: chi siano “noi”? Risponderci che siamo europei serve solo a spostare la risposta più in là, perché, alla stessa domanda, l’Europa non sa oggi fornire risposte. Dirci che siamo occidentali confonde le acque, perché anche gli americani sono occidentali ma il loro “noi” è diverso dal nostro. Potremmo rispondere che noi siamo ciò che vogliamo essere, ma proprio ciò che vogliamo essere domani è ciò che è in dubbio oggi. Siamo, dunque, in crisi di identità.
Questa crisi è salutare, ma è più difficile da risolvere di altre che abbiamo attraversato. Perché mentre prima, ad esempio di fronte al fascismo, al nazismo, al comunismo, ci si poteva contentare di definirci come “anti”, in negativo, oggi ci tocca definirci in positivo. Il richiamo alla nostra storia può aiutarci. Ma con un’avvertenza: che, soprattutto per noi italiani e europei, richiamarsi alla nostra storia non significa tirare le somme del passato, bensì scegliere. Scegliere quali genealogie, quali sistemi di valori e princìpi, quali istituzioni, quali ideali si intendono accettare e perseguire.
La discussione fra credenti e laici, soprattutto laici liberali, che da noi è cominciata in modo promettente circa la nostra identità prevalentemente cristiana dovrebbe aiutare questa scelta. Se non c’è astuzia, se non c’è pigrizia, produrrà i suoi frutti. Ma perché non ci siano né astuzia né pigrizia, occorre coraggio. Ce l’hanno, questo coraggio, i laici o si sentono ancora confortati dai recinti in cui la storia li ha rinchiusi? Ce l’hanno, lo stesso coraggio, i credenti o si sentono ancora insidiati dal rischio delle strumentalizzazioni della loro fede? Speriamo di sì, che ce l’abbiano gli uni e gli altri, perché è necessario che ce l’abbiano tutti.