Interventi

Siamo in tempo a difendere la nostra identità?

20 Aprile 2007

Intervento all’incontro a Padova promosso dall’Associazione Padovadomani e dall’Associazione Antenore.
di Marcello Pera

1. Un po’ di problemi

Il tema del titolo contiene più di un interrogativo. Intanto c’è quello esplicito: se la difesa della nostra identità abbia ancora possibilità di successo o invece sia già in ritardo. Poi ce ne sono due impliciti: quale identità dobbiamo difendere?

E perchè dobbiamo difenderla? Ma, dovendo riferirci ad un contesto culturale e politico, altri interrogativi sottostanti a quello principale emergono. Uno in particolare. Quali atteggiamenti hanno, in Italia, le forze politiche e la cultura politica nei confronti del problema della nostra identità? 
Ma su tutti c’è un interrogativo preliminare: perchè e come e quando è nato un problema di identità? Se prima di questo problema non si discuteva, non può voler dire che non c’era; più ragionevolmente e più realisticamente, vuol dire che lo si dava per risolto, e che la sua soluzione non sollevava obiezioni. Se oggi invece se ne discute, vuol dire che la soluzione accettata e acquisita fa nascere qualche difficoltà.
Dunque, procederò non dall’interrogativo principale, ma in modo più logicamente ordinato. Comincerò col chiedermi quale identità dobbiamo difendere. Passerò poi alla questione del perchè dobbiamo difenderla. E infine mi porrò il problema se siamo ancora in tempo a difenderla. Un’avvertenza mi sembra utile. Benchè quanto dirò non sia strettamente politico, il tema, a mio avviso, è il più politico tra quelli che abbiamo di fronte, ed è così politico che da esso dipendono quasi tutti gli altri principali temi politici.
Per questo sono, a dir poco, sconcertato dal fatto che esso, a mio avviso, sia trattato malamente dalle forze politiche, oppure che sia eluso del tutto, come se fosse bene scongiurarlo e non sollevarlo. Tra le varie sciagure che ci càpitano, una delle peggiori è la dittatura del silenzio, quella che ci vuole imporre i temi su cui dire e soprattutto quelli su cui tacere. Alla quale dittatura se ne aggiunge un’altra, anche più intollerabile, quella di chi ci vuole imporre i termini del linguaggio ammesso o delle soluzioni legittime. Tanto per intenderci, si tratta di quella dittatura per cui, se c’è uno scontro, non si può definirlo ‘religioso’ o ‘di civiltà’, se c’è il terrorismo, non si può definirlo ‘islamico’, se ammazzano cristiani, non si può chiamarli ‘martiri’, se c’è un problema di rispetto delle regole, si deve risolverlo sempre col dialogo, la tolleranza, l’ascolto, l’accoglienza degli altri. Mai con il rispetto di noi stessi, mai con il rispetto della nostra identità. E anche questa doppia dittatutra è un problema da risolvere se invece vogliamo fare in tempo a difenderla, quella identità.

2. Quale identità?

Soprattutto quando sia riferita ad un popolo o a una nazione o a una civiltà comune a più popoli o più nazioni, l’identità è come il tempo per S. Agostino: tutti sanno che cosa sia finchè non si chiede che cosa è.
Se vogliamo escludere riferimenti assai controversi come quelli di razza o assai aleatori come quelli geografici, oppure più indicativi ma anch’essi volatili come quelli storici, ci restano i termini ideali e spirituali. L’identità di un popolo è ciò in cui crede, ciò per cui sta, ciò a cui aspira, ciò da cui è orientato. In una parola, è il suo ethos.
L’identità segna una linea di demarcazione originaria, tra ‘noi’ e gli ‘altri’. Perciò si coglie più facilmente in negativo, per differenza o per contrasto. Se esci di casa e incontri qualcuno che ha costumi diversi dai tuoi, non semplicemente lingua o abbigliamento, ma abiti di vita, comportamenti, credenze, riti, cerimonie, allora ti rendi conto della sua identità e, per raffronto, ti si rende manifesta la tua. Se qualcuno viene in casa tua e con le sue richieste ti rende espliciti i princìpi che ne stanno alla base, allora ti rendi conto della sua cultura e se, e di quanto, differisce dalla tua. E se poi questa cultura non è sovrapponibile o non è del tutto compatibile con la tua, allora ti rendi conto che può nascere un conflitto. È solo se neghi questo conflitto o se concedi agli altri più diritti di quanti riconosci a te, che la tua identità va perduta, o perchè gli altri ti impongono la loro o perchè tu non sei più interessato alla tua. Che è ciò che sta accadendo a noi, in Italia e in Europa, dove l’ospitalità significa resa, e la tolleranza significa accondiscendenza. Sì che, da ultimo, ciò che passa per dialogo è in realtà assimilazione passiva, concessione, mancanza di reazione, abbassamento di voce e, infine, affievolimento e perdita di sè medesimi.
Se, dunque, l’identità è cosa morale e spirituale, è impossibile che in questa cosa non c’entri la religione. Primo, perchè la religione è un atteggiamento originario di chiunque, l’eterno tentativo di dare un senso al proprio destino, dunque di trovare un’immagine e un’identità di sè. Secondo, perchè una religione plasma i costumi, e unifica e delimita quella comunità che la condivide, e perciò ne fissa l’identità. Terzo, perchè, indicando ciò in cui si deve credere, la religione indica ai suoi aderenti il modo di vita che essi devono testimoniare e realizzare, e perciò quale identità devono mantenere affinchè possano affermare quello specifico modo di vita che è loro proprio.
Ora, per rispondere alla nostra prima questione, non c’è dubbio alcuno, nè storico nè culturale, che la religione cristiana sia parte, e parte essenziale, originaria, costitutiva, della nostra identità. Non c’è dubbio storico, perchè noi facciamo risalire gli atti battesimali della nostra cultura ai viaggi di Pietro e Paolo e al Vangelo da essi importato. Non c’è dubbio culturale, perchè tutto il nostro modo di pensare è orientato da uno spirito cristiano. Persino il nostro ambiente è plasmato dal cristianesimo. Se qui c’è una chiesa, o una basilica o un’abbazia o un monastero, e lì ci sono un ospedale, un tribunale, un’università, è perchè un’idea tipicamente cristiana è intervenuta a creare e distinguere luoghi e istituzioni. Togliete quell’idea e avrete cambiato anche il paesaggio.
Prima di rispondere ad una comprensibile obiezione, desidero insistere su questo atto battesimale nostro, dell’Italia, dell’Europa e di quell’Occidente che è stato inventato o, come si direbbe oggi con un termine proibito, ‘esportato’ dall’Europa.
Se ci sono due caratteristiche macroscopiche principali della nostra cultura occidentale moderna, esse sono il capitalismo, che è un modo di produrre, e la scienza, che è un modo di conoscere. È impossibile negare il ruolo del cristianesimo nella genesi dell’uno e dell’altra. Ed è impossibile, anche se la cosa passa inosservata o viene taciuta come se fosse irriguardosa citarla, negare che sono stati proprio il capitalismo e la scienza a distinguere più di altri la civiltà cristiana da quella islamica.
Di solito, per indicare i punti di divergenza e di separazione fra Occidente e paesi arabi e islamici, si citano le differenze fra Antico e Nuovo Testamento e Corano. Oppure le battaglie, con le conquiste e le ‘reconquiste’. In realtà, l’aspetto principale che distingue le due civiltà dipende in particolare dalla scienza moderna. L’Islam, che pure sul terreno scientifico era molto avanzato perchè più di altri aveva assorbito la cultura razionalistica greca, non ha avuto quella Rivoluzione scientifica, così impregnata di credenze cristiane, che è il vero motore dello sviluppo conoscitivo ed economico dell’Occidente.
C’è poi un altro aspetto che è tipico dell’Occidente. Che le conquiste della scienza moderna e del capitalismo, più quelle da esse derivate – le rivoluzioni politiche, sociali, dei diritti, tecnologiche -, pur nate da noi in certi tempi e in certi luoghi, hanno poi avuto forza da imporsi come beni universali, per tutti, in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Naturalmente, non è che prima del capitalismo e della scienza moderna non ci fossero modi di produzione dotati di successo e forme di conoscenza forniti di efficacia. C’erano, ma nessuno con risultati di altrettanto valore, tanto che ancor oggi nè si sono trovate soluzioni migliori alternative al capitalismo nè forme di conoscenza più obiettive, pubbliche e controllabili della scienza sperimentale. Se l’una e l’altra forma -quella di produzione e quella di conoscenza – si sono imposte anche nelle regioni più lontane, significa che hanno una valore in sè. Che la nostra forma di produzione produce una cultura che soddisfa meglio la natura umana; e che la forma di conoscenza scientifica coglie meglio la realtà naturale. Un po’ come la democrazia, secondo la celebre definizione di Churchill: il peggiore dei regimi, ad eccezione di tutti gli altri.
Qui, per chiudere sul punto, vengo all’obiezione: il cristianesimo non è l’unica tradizione che ci ha formato. È vero, perchè tradizioni culturali importanti che hanno plasmato l’identità europea c’erano anche prima. Ma l’obiezione rafforza il punto, non lo confuta. Se è vero ciò che ha detto Benedetto XVI nella sua celebre lezione di Ratisbona – e cioè che ‘il patrimonio greco [è] parte integrante della fede cristiana’ e che nella concezione del Dio Logos ‘si manifest[a] la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia’ -, allora la cultura greco-romana è elemento della nostra tradizione in quanto è elemento della tradizione cristiana. Il Dio ebraico-cristiano che, ad un certo punto della nostra storia, ci tenne a battesimo è un Dio che già parlava greco. E il figlio di Dio che dette a noi il primo dei suoi insegnamenti – l’uomo creato a immagine sua – parlò latino quando trasfuse questi valori nella cultura romana.
Non solo sul piano dottrinale, ma anche su quello storico, possiamo dunque essere d’accordo con Benedetto XVI quando, parlando di questa ‘sintesi fra spirito greco e spirito cristiano’, sempre a Ratisbona, ha detto: ‘Considerato questo incontro, non è sorprendente che il Cristianesimo, nonostante la sua origine, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente anche il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa’. Ecco perchè la celebre litote di Benedetto Croce – ‘non possiamo non dirci cristiani’ – ha un innegabile fondamento storico.
Ma, si obietterà ancora, e quello che è accaduto dopo, ad esempio l’umanesimo, l’illuminismo, non è parte anch’esso della nostra identità? È vero anche questo, ma è importante precisarlo bene, anche perchè, in materia di identità, si tratta del tema che più è presente nel dibattito politico attuale.
Si considerino le discussioni sul nascente Partito democratico in Italia. Allo scopo di fornirgli una cornice ideale, il gruppo di intellettuali che ne hanno steso il manifesto culturale, ha scritto: ‘Ci riconosciamo nei valori di libertà, uguaglianza, solidarietà, pace, dignità della persona che ispirano la Costituzione repubblicana e nell’impegno a farli vivere in Europa e nel mondo. Questi valori discendono dai molti affluenti della cultura democratica europea. Hanno le loro radici più profonde nel cristianesimo, nell’illuminismo e nel loro complesso e sofferto rapporto’.
Ma questa che già è un’operazione politica ardita – unificare due famiglie, una cattolica e una laicista che fino a ieri erano, e ancor oggi sono, contrapposte – è una tesi falsa sul piano storico e contraddittoria su quello culturale. L’illuminismo di cui dicono i nascenti Democratici è in realtà il comunismo di cui essi non possono parlare ma che fanno fatica a dimenticare. È l’idea della liberazione dell’uomo dalla religione, e della religione come mito o oppio o falsa coscienza o residuo primitivo. Ed è l’idea che la religione sia un ostacolo al progresso dell’umanità. Questo però non è l’Illuminismo, è al più la parte degenere e continentale di esso, quella politica giacobina e quella filosofica atea. L’illuminismo, specie là dove nacque, in Scozia, non è ostile al cristianesimo. Il liberalismo, che ne è una sua espressione, è sana dottrina cristiana, perchè esalta la libertà dell’individuo affinchè, con la sua opera, esalti la gloria di Dio. E lo stesso vale per la democrazia, altra figlia dell’illuminismo, perchè si fonda sul concetto di uguaglianza di ognuno, il quale rimanda alla dignità di ogni persona in quanto immagine di Dio.
Quello che gli intellettuali del Partito democratico chiamano il ‘complesso e sofferto rapporto fra cristianesimo e illuminismo’ è in realtà un rapporto di contrapposizione. L’illuminismo continentale prima ha preso la forma di Rousseau, poi è diventato l’umanesimo ateo di Marx, Feuerbach, Nietzsche e di tutti i positivisti. Se davvero si vuol essere democratici, allora si deve riconoscere che mentre il cristianesimo ha prodotto o si è aggiustato alla democrazia, l’illuminismo ateo, no. Nè valgono le obiezioni consuete, ad esempio che la Chiesa si è opposta prima al liberalismo poi alla democrazia e sovente al capitalismo (e all’inizio anche a teorie della scienza moderna). Il punto non è la Chiesa, che è istituzione terrena al pari di altre. Il punto è che il cristianesimo ha concettualmente accolto liberalismo e democrazia mentre l’illuminismo, l’umanesimo ateo, il comunismo li hanno combattuti e respinti.
Dunque, non è che ciò che è venuto dopo il cristianesimo non abbia avuto alcun ruolo per la coscienza europea. L’identità è come la famiglia, si allarga e si sviluppa. Ciò che è venuto dopo ha formato la coscienza europea reattivamente, cioè per contrasto, innesto, contaminazione, ibridazione, sintesi con il ceppo originario. Senza un ceppo originario – i celebri tre colli e le celebri tre capitali – nessuna reazione sarebbe stata possibile. E perciò, a voler parlare seriamente di identità, non possiamo procedere con le alchimie del manifesto degli intellettuali del Pd. Se non si possono fare scelte per non mettere a rischio un’operazione politica che, fondendo due partiti, cerca di mediare fra le opposte provenienze culturale, si deve almeno essere creativi. Ma non si può esserlo fino al punto di riscrivere la storia e di falsificare l’atto di nascita. ‘Cristianesimo e illuminismo’ è come ‘di lotta e di governo’: un ossimoro.

3. Perchè difenderla?

Sono così alla mia seconda questione, quella della difesa della nostra identità.
L’identità si può perdere in due modi: o per un attacco dall’esterno, che la abbatta e la sostituisca con un’altra, o per annientamento interno, che prima la indebolisca poi la diluisca e infine la faccia perire. In Europa, all’identità cristiana stanno accadendo entrambe le cose.
Della prima, quella che si chiama ‘scontro di civiltà’, intendo dire molto poco. Se non che questo scontro c’è, che i terroristi ce lo hanno dichiarato perchè, come essi dicono, noi siamo ‘giudei e crociati’, cioè, appunto, perchè abbiamo un’identità ebraico-cristiana. E che l’Europa, questo scontro sta per perderlo, perchè ne ha paura, non intende affrontarlo, ed ha sviluppato ciò che più volte ho chiamato una ‘sindrome di colpevolezza’: se lo scontro c’è, è colpa nostra. Rifiuto questo modo di ragionare, mi oppongo a questa Europa, considero poco responsabile chi ne fa le lodi, ma cerco di capirne le ragioni. E questo mi porta alle cause interne della perdita di identità.
Le principali hanno due nomi, relativismo e laicismo, e tutti e due hanno dalla loro buoni argomenti. Dalla parte del relativismo sta il binomio pluralismo più tolleranza. Dalla parte del laicismo, il binomio diversità religiosa più libertà di coscienza.
Consideriamo il primo binomio. Il pluralismo è un fatto: gruppi diversi hanno stili di vita diversi. La tolleranza è un valore per dominare questo fatto, cioè per evitare che la pluralità degli stili di vita produca un conflitto. Lo stesso vale per l’altro binomio. La diversità religiosa è anch’essa un fatto, e la libertà di coscienza è il valore che serve per impedire che esso diventi fonte e ragione di scontro.
I secondi termini di ciascun binomio – tolleranza, libertà di coscienza – sono scoperte dell’Europa, alle quali essa, nel Seicento, è giunta dopo non pochi scontri e conflitti, comprese tragedie e guerre. Da questi termini dipendono i tratti più tipici della nostra cultura, ad esempio la convivenza fra popoli diversi per storia, e le istituzioni più preziose della nostra vita politica, ad esempio la separazione fra stato e chiesa. Se da quattro secoli in Europa non si combatte più una guerra religiosa, si deve all’affermazione di questi binomi. Riaffermarli è perciò nostro interesse e dovere.
Ma il relativismo e il laicismo vanno oltre i binomi da cui partono. Il relativismo non afferma solo la pluralità degli stili di vita, ma la loro equipollenza, la loro uguale legittimità, il loro identico valore. E il laicismo non sostiene solo la libertà di ogni religione, ma la loto natura privata, soggettiva, estranea alla sfera politica. Per il relativista non esiste un metro morale comune. Per il laicista non esiste un fatto religioso pubblico.
Le differenze fra pluralismo e relativismo e fra laicità e laicismo sono enormi. Un conto è prendere atto dell’esistenza di più stili di vita, un altro è considerarli tutti uguali e nessuno senza alcun merito superiore ad un altro. Un conto è impedire la sopraffazione religiosa, ad esempio il vecchio principio cuius regio, eius religio, e un altro conto è eliminare la religione dalla sfera pubblica. Tra l’uno e l’altro conto c’è un salto. E il relativismo e il laicismo questo salto l’hanno compiuto. Il relativismo quando dalla pluralità dei valori è passato all’equivalenza dei valori. Il laicismo quando dalla diversità di religioni è passato all’irrilevanza della religione. 
Conviene insistere sulle differenze cruciali. Mentre la pluralità degli stili di vita richiede lo sforzo di sintesi, il relativismo è la negazione di principio di tale sforzo. E mentre la laicità richiede una fondazione positiva dei valori religiosi, il laicismo è esso stesso una religione positiva. 
Consideriamo ora le conseguenze in Europa di relativismo e laicismo.
Quanto al relativismo, oggi la nostra cultura dominante ci dice che i valori della nostra tradizione e della nostra identità sono solo eurocentrici, cioè validi per noi, ma non per gli altri, cioè senza valore universale. E con ciò un fondamento della nostra civiltà e i vantaggi connessi si perdono. Come si fa, ad esempio, a sostenere Carte universali dei diritti umani, ad esempio quella dell’Onu, se i diritti hanno solo valore locale? Come si fa a chiedere rispetto per noi, se ciò che vale per noi può non valere, in linea di principio, per gli altri? E perciò come si fa a difendere noi stessi se, attaccati dagli altri, non abbiamo ragioni migliori degli altri?
Quanto al laicismo, oggi la stessa cultura dominante ci dice che la religione non è fattore di identità ma di dominio, non di liberazione ma di oppressione, e soprattutto di ostacolo al dialogo. E con ciò anche un altro fondamento su cui si basa la nostra civiltà si perde. Come si fa, ad esempio, a sostenere la democrazia e tutti gli istituti ad essa connessi se al valore religioso della dignità della persona che è alla base della democrazia è negato un ruolo nella discussione pubblica? E come si fa a difendere i valori civili pubblici della libertà, dell’uguaglianza, eccetera, se proprio i sentimenti di quella religione cristiana cui essi sono legati devono essere considerati privati?
Relativismo e laicismo, purtroppo, sono ciò che passa il convento europeo. Sono il vero made in Europe, il prodotto più trendy, più chick, più in, quello che noi meglio produciamo e esportiamo. E le conseguenze di questo smercio si vedono.
Una conseguenza tipica del relativismo, quando sia applicato alla politica sociale, è il multiculturalismo. Il quale non è il naturale riconoscimento delle diversità etniche. È invece l’ammisione e l’applicazione del principio che ogni diversità etnica ha diritto a vedersi rispettata, quale che sia la propria natura. Se oggi non possiamo dire niente degli altri e solo sopportare, se, come si dice, gli altri hanno la loro cultura e noi la nostra, se l’una cultura vale l’altra, e perciò se nelle nostre città si creano zone franche e qualche comunità chiede il rispetto delle sue leggi anche se in contrasto con le nostre, e perciò ancora, per esemplificare, se tolleriamo che i diritti delle donne non siano gli stessi degli uomini, se tolleriamo, fingendo di non vederla, la poligamia, se ammettiamo la violenza familiare, se consentiamo che una scuola possa essere un luogo di indottrinamento, allora il multiculturalismo avrà vinto. E avrà perso la nostra identità. Alla fine diventeremo noi stessi minoranza fra minoranze, dentro il nostro ghetto, dietro il nostro muro. 
Le conseguenze tipiche del laicismo sono racchiuse nelle principali legislazioni europee sui temi bioetici. Qui non c’è che l’imbarazzo della scelta, dall’aborto all’eutanasia, passando per l’eugenetica, la clonazione, la sperimentazione sulle cellelule embrionali. In ciascuno di questi casi, è un valore primario della nostra identità cristiana – dalla dignità della persona alla vita – che è violato. E la violazione è giustificata sempre allo stesso modo, in nome della soggettività del sentimento religioso.
Faccio qui osservare che noi oggi subiamo le conseguenze anti-intenzionali dei nostri stessi princìpi e valori, perchè ne abbiamo perduto il senso originario e li interpretiamo in modo distorto. La libertà, la tolleranza, la pace, i diritti umani non sono buoni sentimenti, bensì concetti solidi che richiedono, quando occorre, anche cattivi sentimenti, affinchè non si rovescino nel loro contrario. Invece, è come se noi fossimo vittime delle nostre stesse conquiste, prede della nemesi. Nel nome della libertà ammettiamo i violenti. Nel nome della tolleranza concediamo spazio agli intolleranti. Nel nome della pace generiamo conflitti. Nel nome dei diritti umani produciamo una cultura che giustifica i criminali politici. Per richiamare un esempio noto, quel giudice italiano che manda assolti imputati, e non distingue fra terroristi, guerriglieri, partigiani, non è, anche se forse è, solo indottrinato di ideologia resistenziale o antiamericana, è vittima di una cultura relativista nella quale il confine tra il giusto e l’ingiusto passa attraverso meridiani geografici e non codici giuridici o etici.
Perciò, per concludere anche sulla seconda questione, noi dobbiamo difendere la nostra identità cristiana, perchè, in negativo, non vogliamo essere sopraffatti dai veleni del relativismo e del laicismo nè pagarne le conseguenze.
Possiamo dirla anche in positivo. Siccome vogliamo vivere liberamente le nostre città, respingiamo l’idea di dividerle in quartieri governati dal cuis regio, eius religio. Siccome abbiamo rispetto di noi, non intendiamo arrenderci agli altri. Siccome vogliamo la pace, non alziamo le mani se qualcuno ci fa la guerra. Siccome abbiamo fede nei nostri valori, non intendiamo che la comodità, il conforto, il capriccio di chi vuole violarli si trasformi in diritto. Non è che siaamo arroganti o dogmatici. È che non vogliamo perdere ciò che a fatica abbiamo messo in pedi. E non è che non rispettiamo gli altri. È che abbiamo anche rispetto di noi. 

4. Siamo ancora in tempo?

L’ultima domanda che mi sono posto – siamo ancora in tempo a difendere la nostra identità o la partita è già perduta? – è quella la cui risposta è più problematica.
Sulla strada della perdizione, quella esterna e quella interna, ci stiamo velocemente incamminando.
La perdizione esterna. L’Europa non si difende dagli attacchi che subisce. Peggio, l’Europa patisce. Al terrorismo risponde con quelle che chiama ‘missioni di pace’. Agli attentati sul proprio territorio replica con quello che chiama ‘dialogo’. Alle invettive e minacce di distruzione contro Israele da parte di gruppi e stati-canaglia oppone la diplomazia. Ai progetti di esportare la democrazia anche in quei paesi in cui sarebbe suo immediato interesse che fiorisse, perchè la loro autocrazia genera fondamentalismo, contrappone l’idea che ciascuno è democratico alla propria maniera. Ce n’è già abbastanza per temere che l’Europa stia cedendo sotto i colpi che subisce.
La perdizione interna. Anche su questo fronte l’Europa sta arretrando. Si considerino alcune reazioni tipiche. Di fronte al tentativo di darsi una costituzione e di declinare nel preambolo le proprie generalità religiose, l’Europa amputa la parte principale della propria storia, il cristianesimo. Di fronte al Papa che ne difende le radici, si ritrae e, quando quello è fatto oggetto di ostilità, lo lascia solo. Alle prese col calo demografico e con la crisi della famiglia risponde col matrimonio omosessuale. E così via. Ce n’è più che a sufficienza per dire che l’Europa oggi è grossa ma non è grande. È compiaciuta di sè ma è cinica.
E dunque torna, più angosciante, la domanda: siamo ancora in tempo? Circoscrivo la questione e mi riferisco alla situazione italiana.
Lo saremmo a due condizioni: che avessimo consapevolezza della crisi, che volessimo superarla. A me pare che nessuna di queste due condizioni sia soddisfatta completamente o che lo sia in modo adeguato. E qui dobbiamo guardare al dibattito politico.
La sinistra europea è il soggetto portatore della crisi. Il caso italiano è tipico. La sinistra cattolica pensa davvero che si possa conciliare cristianesimo e illuminismo. Pensa che il cristianesimo si debba coniugare con la post-modernità. Accetta la scissione fra religione e politica e ritiene che un appello del magistero possa essere disatteso perchè viola la ‘autonomia della politica’, cioè la sua piena laicizzazione. Questa sinistra cattolica non crede più che esistano valori non negoziabili. È vittima di quella che Giovanni Paolo II chiamava ‘l’alleanza fra relativismo e democrazia’, cioè che tutto è lecito purchè ammesso da una legge approvata da un parlamento.
Quanto alla sinistra laica italiana, essa è l’erede del marxismo, del comunismo e del socialismo. Dovendo ammainare le bandiere o ridipingerle o darsene di nuove, essa ha rovesciato le posizioni di partenza. Quell’Europa che un tempo avvertiva come ostile, perchè atlantica, oggi che vuol essere un contrappeso dell’America, è diventata il suo rifugio ideologico. E quel liberalismo che un tempo era il suo avversario, oggi che è scaduto in relativismo e laicismo, è diventato il suo vocabolario. Se si guarda ai punti programmatici della mozione di maggioranza con cui il partito dei Ds si presenta al congresso di scioglimento nel Pd, si coglie bene questo rovesciamento della vecchia tradizione che provoca un effetto di spaesamento in molti dei suoi militanti.
Dopo alcune parole generiche e vuote, buone per chiunque – ‘il partito delle istituzioni e non del Palazzo, delle regole e non dei divieti, dei diritti e non dei privilegi’, ecc. – il primo vero contenuto politico preciso di quella mozione è ‘un partito laico’, il quale ha questi obiettivi: ‘riconoscimento giuridico dei diritti delle persone, omosessuali e eterosessuali, che vivono nelle unioni di fatto; disciplina del testamento biologico; norme umane sull’accanimento terapeutico; miglioramento della legge sulla fecondazione assistita; criteri per la ricerca sulle staminali’. È perciò – si dice ancora in quella mozione – il partito laico dovrà essere ‘rispettoso di tutte le chiese e le confessioni religiose’, ma ‘allo stesso tempo, un partito che rivendica a sè quel che solo la politica può e deve fare’.
Ma, ci si chiede, illuminata da che cosa deve essere questa politica? Orientata da quali princìpi e valori? Forse dall’uguaglianza di tutti gli stili di vita? Forse dall’uguale rispetto per tutti? Quelli del matrimonio omosessuale come quelli della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio? Quelli della poligamia come quelli del vincolo matrimoniale monogamico? Quelli della parità uomo-donna come quelli della subordinazione della donna? E che vuol dire che la politica sceglie? Vuol dire che vota e conta le teste semplicemente oppure che anche ha qualcosa da difendere, una storia, una tradizione, un’identità? No, l’ossimoro di ‘cristianesimo e illuminismo’ è solo il segno che, a sinistra, la crisi di identità non è avvertita o, se avvertita, che la battaglia contro la nostra identità è ingaggiata.
Guardiamo ora la destra. In tutto il mondo, si chiama conservatrice. Per una ragione specifica e nobile, la quale è stata illustrata nei secoli da eminenti studiosi e leader politici. Perchè la destra ritiene che, senza la conservazione delle tradizioni e il loro aggiustamento lento e graduale, non c’è mantenimento di identità, e senza mantenimento di identità c’è solo l’avventura delle rivoluzioni. Per questo la destra è gradualista, è sperimentalista, procede per tentativi e correzioni di errori. Per questo è riformista. Per la destra le riforme sono la risposta provvisoria alle lacune rinvenute in una tradizione, non un salto in un’altra tradizione.
Ma la destra in Italia è sconcertante perchè ha due caratteristiche che la distinguono da quella del resto del mondo occidentale. Non ama definirsi destra e detesta di chiamarsi conservatrice. Ora, le parole hanno il loro peso simbolico e si capisce che in un paese in cui destra ha significato nazionalismo e conservazione ha significato privilegi, questi termini siano desueti e sospetti. Ma, dietro i termini, stanno i concetti e, dietro i concetti, le politiche.
E allora, riguardo alle politiche, ci si chiede: vuole la destra caratterizzarsi come l’alfiere della nostra tradizione cristiana? Vuole rifiutare relativismo e laicismo? Capisce che il multiculturalismo è un veleno, che il pacifismo è una resa, che il dialogo così come oggi è concepito è una trappola? Vuole allora, la destra, mettere in discussione questa Europa, cioè questa Unione Europea? L’impressione è che talvolta non lo voglia. Anzi, che, per difetto culturale, sia debitrice del vocabolario della cultura dominante. E così accade di vedere che la destra si oppone alla sinistra senza conoscerne la vera ragione; che sta dalla parte dell’America, ma non capisce la comune civiltà dell’atlantismo; che si oppone all’islamismo e difende le nostre radici cristiane, quando le difende, ma non ne avverte il peso e il valore.
Tante volte, al contrario, si sente dire: sono di destra, ma sono laico, sono di destra ma sono moderno, sono di destra ma sono liberale. Quei ma sono di troppo e rivelano spesso sensi di inferiorità. Per questo non è infrequente trovare chi, per non sentirsi inferiore, a destra pensa, ad esempio, che la Chiesa esageri, che il multiculturalismo sia una soluzione ragionevole ai problemi dell’integrazione, che il laicismo offra maggiori garanzie di libertà. Per questo s’è sentito il leader di un partito di centrodestra dichiararare che, sul matrimonio omosessuale, egli è ‘per la libertà di coscienza’. Si è visto un altro scrivere in un documento per ‘fare futuro’ che l’Italia è erede di una ‘civiltà politeistica’. Mentre si è udito un altro ancora recitare formule giaculatorie cattoliche, alla vecchia maniera.
Torno allora al punto. Siamo ancora in tempo? La mia risposta è che stiamo perdendo tempo quando ormai c’è più poco tempo. Mentre gli avversari di fuori ci vogliono distruggere le case e i nemici di dentro svuotare l’anima, noi facciamo fatica a capire la posta in gioco. Difendere la nostra identità è il còmpito soprattutto del centrodestra. Per rinnovare un sistema di partiti, per mettere in piedi un partito unico, per offrire una prospettiva, occorre una cornice ideale, da cui nasca un programma, a cui si ispiri un’azione politica. O la destra capisce che la difesa della nostra identità è il primo punto di quel programma oppure la destra, e noi tutti con essa, avrà perso assai di più delle elezioni.

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