Interventi

Università degli Studi del Molise

Campobasso, 16 dicembre 2002

Inaugurazione dell’anno accademico 2002-03

 1. Parlando in casa Partecipo volentieri alla inaugurazione dell’anno accademico di questa Università, portandovi il saluto mio personale e del Senato. Oltre al cortese invito del Rettore Professor Giovanni Cannata, ho più di una ragione per essere qui tra voi questa mattina. La prima riguarda la sciagura che di recente ha colpito questa terra e la tragedia che l’ha investita. Quando sono stato invitato ad inagurarare con voi l’anno accademico, tutto ciò era inimmaginabile.

Oggi vi porto ancora la mia personale solidarietà e quella dell’Istituzione che rappresento, augurandomi che gli aiuti e le provvidenze siano adeguati ai bisogni che esistono e che le sofferenze personali e sociali siano il più possibile ridotte. Un’altra ragione riguarda la mia simpatia per questa giovane università che compie i suoi primi venti anni di attività e che è attualmente in una fase di grande e promettente espansione. Infine, una ragione personale. Avendo passato gran parte della mia vita all’università – alla quale ho dedicato tutta la passione, le energie e le capacità intellettuali di cui ho potuto disporre – colgo sempre volentieri ogni occasione per incontrare colleghi e studenti e conoscere da vicino i problemi che li riguardano. E così, sentendomi un po’ a casa, mi concederete qualche riflessione personale sulla situazione che l’Università italiana sta attraversando. 2. Risorse e riforme Siamo di fronte a due esigenze. Una è di carattere finanziario e riguarda le risorse. L’altra riguarda l’intero sistema universitario, soprattutto dopo le riforme della scorsa legislatura, ed è di carattere ordinamentale. Sulla questione finanziaria si può essere brevi. Investimenti e finanziamenti sono ancora insufficienti. A causa di ciò, rischiamo d’imboccare un percorso di decadenza. I dati, infatti, sono sconfortanti: la percentuale dei nostri ricercatori sulla popolazione attiva è di 0,33: circa la metà di quella della Francia (0,61), della Germania (0,61), dell’Inghilterra (0,55). La percentuale del Pil investito in formazione universitaria ammonta allo 0,63: impallidisce se confrontato con quello della Francia (1,13), della Germania (1,04), della Gran Bretagna (1,11). E questo trend viene confermato qualora si prenda in considerazione la spesa annua per la ricerca nell’università: in Italia ammonta a 2900 milioni di euro, mentre sono 4900 i milioni rispettivamente investiti da Francia e Gran Bretagna e ben 8000 quelli che vi consacra la Germania. Su questa questione ne va della nostra crescita culturale ed economica. Ed è facile capire perché. Quando la scienza moderna era appena agli albori, uno dei suoi padri fondatori – un filosofo che divenne Lord Cancelliere! – disse che scientia est potentia. Oggi possiamo capire quanto fosse lungimirante quel detto, perché nel mondo moderno, e postmoderno, un paese non è ricco se ha tanta manodopera, tante risorse naturali, tanti stabilimenti: un paese è ricco, o più ricco di altri, se inventa di più, se crea di più, se applica di più i risultati delle nuove ricerche, se dà ai suoi giovani una formazione duttile, agile, critica, in grado di metterli in condizione di cogliere sempre nuove opportunità di lavoro in un mondo che crea sempre nuove situazioni di bisogni e mercato. Maggiori investimenti sono dunque essenziali. E però ciò detto, rivendicato e in parte ottenuto, sull’utilizzo di questi investimenti occorre essere responsabili, ragionevoli e anche coraggiosi. La caratteristica principale della nostra spesa universitaria è una sorta di equipartizione delle risorse, naturalmente in modo proporzionale a numero e dimensioni degli atenei. Detto più chiaramente, si spende quasi tutto in stipendi. Questo criterio però presuppone una equivalenza delle offerte formative e delle capacità di ricerca. Se tutti gli atenei offrono la stessa formazione con la stessa qualità, ha naturalmente senso la stessa distribuzione delle risorse. Ma è realmente così? Io credo che l’impostazione egualitaria abbia un senso – anzi, corrisponda ad un dovere dello Stato – per quanto riguarda l’istruzione di base. Lì è in gioco la cittadinanza e dunque è in gioco la democrazia. Ma a me sembra che il criterio egualitario dovrebbe essere combinato con altri, altrettanto e forse più importanti, quando si tratti di valutare offerte di formazione superiore o progetti di ricerca. Qui è realistico ritenere che non tutte le offerte siano di uguale valore e non tutte le ricerche siano di uguale peso. Non si può negare che, riguardo alle offerte di formazione, le università, le scuole superiori, gli istituti di ricerca, costituiscono un mercato nazionale che si confronta con mercati stranieri, che su questo mercato allargato, almeno su quello europeo, non tutti i soggetti sono uguali, e che noi dobbiamo essere competitivi con altri paesi. Come esserlo è il problema che abbiamo di fronte e da cui non possiamo sottrarci. Da tempo si è pensato che la strada della autonomia degli atenei sia il mezzo adatto e misure si sono prese in questo senso fin dalla scorsa legislatura. Analogamente, misure si sono prese per la valutazione dei risultati dell’autonomia, da cui dovrebbe dipendere almeno parte del finanziamento pubblico. Sono personalmente favorevole a queste misure. La strada è quella giusta, perché è la stessa strada che hanno già percorso altri paesi. E però, se vogliamo essere onesti con noi stessi, dobbiamo riconoscere che i risultati sono ancora scarsi. Perché? 3. Autonomia e competizione Il fatto è che l’autonomia deve essere finalizzata alla competizione, ma la competizione non può esserci se l’autonomia si trasforma in una licenza per le iniziative più disparate che sono finanziate comunque, se non altro finanziate tramite il pagamento degli stipendi che assorbono la grandissima parte delle risorse. Quanti corsi, con i titoli più roboanti e fantasiosi e le prospettive più illusorie, si sono aperti solo perché i docenti hanno ritenuto loro convenienza aprirli? Chi valuta la opportunità, utilità, necessità, redditività culturale, scientifica, economica di queste offerte? Quale politica delle assunzioni dei docenti si è fatta o voluta? Questo, a mio avviso, è il punto cruciale. L’autonomia rischia di diventare il nome virtuoso di un settore non virtuoso perché ancora troppo rigido. E il settore – diciamolo onestamente – resta ancora rigido per una serie di fattori che, complessivamente, tendono a trasformare il sistema universitario in un sistema burocratico. Mi sia consentito di ricordarne alcuni di questi fattori.

         1.      Abbiamo un localismo dei concorsi: ormai si va dalla tesi alla toga alla bara, tutto nella stessa sede, tutto dietro l’angolo di casa. Con questo sistema, non si fanno innesti scientifici, si fanno incesti accademici.      2.         Abbiamo un corporativismo delle discipline: alcuni pochi docenti la fanno ancora da padrone solo perché più votati in cosiddette “elezioni” dei commissari. Non è chiaro come questa “democrazia” si sposi con quella meritocrazia senza la quale l’università muore.   3.      Abbiamo un numero elevato di promozioni da docenti di 2a a docenti di 1a fascia o da ricercatori a docenti di 2a fascia: si fa prima, si fa in casa e costa poco. E già questo vocabolario delle fasce, ignoto a tutto il mondo occidentale, dovrebbe dirla lunga sul sistema di reclutamento e sullo status dei nostri docenti: andiamo verso il “docente unico” che fa carriera per fasce praticamente di anzianità. 4.      Abbiamo uno scarsissimo reclutamento di giovani a causa di ragioni di bilancio che sono punitive e perverse: un ricercatore grava finanziariamente quanto due promozioni a docente di 1a fascia. 5.      Abbiamo il cosiddetto “3 più 2”, il quale, misteriosamente, o fa il 4 di prima, con un allungamento di fatto del triennio previsto, o non fa ancora 5, perché i due cicli finiscono con il dover essere spesi nella stessa sede.     6.      Abbiamo rette basse, con un circolo vizioso: le rette sono basse perché non ci sono adeguate borse di studio per i meritevoli, e non ci sono adeguate borse di studio per i meritevoli perché le rette sono basse.

Il sistema, insomma si è irrigidito. L’autonomia universitaria è requisito fondamentale della società aperta ma in Italia l’autonomia tende a produrre una università chiusa. Con le regole oggi vigenti, per uno studente è difficile cambiare ateneo, perché non è sicuro di vedersi riconosciuti tutti i suoi crediti, nemmeno alla fine del triennio. Per un laureato è difficile entrare in carriera, in quanto il suo eventuale posto costa quanto due promozioni alla fascia superiore. E basta sapere come funzionano i Consigli di facoltà per comprendere che tra l’esigenza generale di una nuova assunzione e l’interesse particolare ad essere promossi di due persone lì presenti in carne ed ossa, è solitamente il secondo interesse a prevalere. Per un docente, infine, è persino difficile cambiare ateneo. Non si fa più formazione in altra sede, e così non si entra più in contatto con altre scuole, dottrine, impostazioni metodologiche, modi di pensare. Si nasce e si invecchia nell’ambiente nel quale ci si è formati e dove l’aria che circola è sempre la stessa. Appunto, dalla tesi di laurea alla bara.

4. Imparare dall’esperienza

Un sistema siffatto non è un sistema di autentica autonomia. L’autonomia vera importa scelta, la scelta importa responsabilità e la responsabilità importa premi ma anche sanzioni. Se invece il sistema non è sanzionato, o di fatto non è sanzionabile, perché l’attore dell’autonomia non è chiamato a rispondere dell’esercizio che ne fa, allora si produce un’autonomia senza competizione. Ma un’autonomia senza competizione è un’autonomia fittizia, è il nome che un vizio dà ad una virtù.

Si cita spesso l’esempio americano. Si dimentica che in quel paese la competizione esercitata dagli atenei privati, costosi ma efficienti, ha contribuito non poco a rendere competitivi gli atenei pubblici. E si dimentica che tra i migliori atenei – il caso della California lo dimostra – ci sono proprio gli atenei pubblici.

So, per esperienza prima accademica e poi politica, che il discorso dell’autonomia vera, l’autonomia con responsabilità, è un discorso assai difficile. Comporta mettersi in discussione, cambiare abiti mentali, costumi di lavoro. Comporta ammettere che alcuni atenei o corsi o dipartimenti sono migliori di altri. Ma se proprio noi – noi docenti e politici – non abbiamo il coraggio di distinguere corsi di livello da corsi di minore importanza, atenei eccellenti e atenei deboli, e non sappiamo trarre le conclusioni da un sistema che, per voler essere egualitario, diventa invece ingiusto, in primo luogo verso gli studenti, e inefficiente verso il sistema Italia, allora dobbiamo anche essere consapevoli che la richiesta di maggiori investimenti, che condivido pienamente, non produrrà risultati utili e virtuosi.

Io credo invece che questi risultati si possano e si debbano conseguire. Il dato della cosiddetta “fuga dei cervelli” è per me indicativo. È un dato paradossale. Se abbiamo cervelli che fuggono e se questi cervelli, là dove sono fuggiti, conseguono risultati di eccellenza, non sarà che, essendo lo stesso il cervello, è diverso l’ambiente? E se vogliamo che questi cervelli rientrino e anche vogliamo produrne di nuovi e trattenerli, non si dovrà costruire un ambiente almeno simile a quello in cui essi tendono a fuggire? Noi non scarseggiamo di cervelli. In materia, possiamo stare alla pari con altri paesi e sopravanzarli. Noi scarseggiamo di ambienti adatti ai molti cervelli che abbiamo.

Riassumo, a conclusione, il mio pensiero. Abbiamo bisogno di maggiori investimenti, per stare a pari degli altri paesi, almeno quelli europei. Ora che scade il primo triennio, dobbiamo ripensare la formula del “3 più 2”, per evitare che gli studenti abbiano una offerta formativa inadeguata. E dobbiamo rivedere il sistema dei concorsi, per impedire che diventi ancor più rigido, corporativo, localistico. Mi sembra che alcune recenti prese di posizione di rettori e il dibattito che comincia a svilupparsi nell’opinione pubblica siano segnali promettenti per un ripensamento generale sullo stato e sulle prospettive della nostra università.

Per fare tutte cose, abbiamo bisogno di un’altra: lo spirito critico, aperto a correggere gli errori, a imparare dall’esperienza nostra e altrui, a mettersi sempre in discussione, a studiare nuove soluzioni. Parlando a colleghi illustri, sono certo che questo spirito, all’università italiana, ci sia ancora.

 

 

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