2 gennaio 2009
Intervista a Marcello Pera a cura di Alberto Di Giglio dai microfoni di Radio Maria.
PERCHÉ DOBBIAMO DIRCI CRISTIANI
Di Giglio – Siamo in compagnia di un ospite che abbiamo avuto già l’onore di intervistare proprio un anno fa. Parlo del professore, del senatore Marcello Pera, che ha dato alle stampe un saggio, un importantissimo lavoro che ha un titolo molto perentorio: “Perché dobbiamo dirci cristiani”. E lo declina specificando che cos’è il liberalismo, l’Europa, l’etica. Tra l’altro il libro porta una presentazione di Benedetto XVI.
Marcello Pera è un filosofo, è stato ordinario di filosofia teoretica all’Università di Catania e di filosofia della scienza all’Università di Pisa. Durante la XIV legislatura, dal 2001 al 2006 ha ricoperto la carica di presidente del Senato. Ha pubblicato in Italia e all’estero numerosi libri di argomento filosofico. Presso la Mondadori è uscito nel 2004, scritto con Benedetto XVI, allora cardinale Josef Ratzinger. “Senza radici: Europa, relativismo, cristianesimo e islam”. E adesso questo importante, straordinario lavoro, è stato accolto con grande entusiasmo, e soprattutto è lui stesso che cerca di individuare dei destinatari, dei lettori. E lo dice nell’introduzione: «Ho scritto per farmi capire da un pubblico più ampio possibile: quello che ha già una risposta al mio problema, quello che non ce l’ha, ma desidera averla; quello che è semplicemente interessato a farsene una opinione. E naturalmente ho scritto anche per coloro che hanno idee diverse e intendono confrontarsi con serietà. Purtroppo buona parte della letteratura sull’argomento del cristianesimo e della laicità, del liberalismo, dell’Europa, della bioetica, è oggi militante, polemica e aggressiva».
E continua in un altro punto dell’introduzione: «Alcuni amici studiosi, del cui giudizio mi fido e a cui sono grato, hanno letto una versione incompleta del primo capitolo e discusso con me il progetto del volume, ma nessuno lo ha visto interamente. Solo uno lo ha fatto e ha avuto la generosità di farmi conoscere le sue opinioni. Col suo permesso le riproduco qui con commozione. Benedetto XVI è il papa della speranza cristiana a cui si rivolgono milioni di persone di tutto il mondo e che la storia grava di enormi responsabilità. È la figura che più scuote le nostre coscienze e sollecita la nostra attenzione. La mia gratitudine intellettuale e personale nei suoi confronti va ben oltre qualunque parola mi riuscisse di esprimere. Posso solo dire che nonostante tutte le mie sollecitazioni interiori questo lavoro non ci sarebbe stato se lui non avesse scritto e parlato e non testimoniasse ciò di cui scrive e parla».
Scrive Benedetto XVI: «In questi giorni ho potuto leggere il suo nuovo libro Perché dobbiamo dirci cristiani. Era per me una lettura affascinante. (…) Il libro è di fondamentale importanza in quest’ora dell’Europa e del mondo, e lo ringrazia per aver contribuito a dimostrare che un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale, che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo.
Ecco, professor Pera, grazie innanzitutto per la sua disponibilità a parlare dai microfoni di Radio Maria, e benvenuto!
Pera – Grazie. Grazie a lei, direttore, e in primo luogo mi lasci salutare cordialmente e affettuosamente i nostri ascoltatori ai quali sono grato per la loro simpatia e attenzione.
Di Giglio – L’altro giorno ero alla presentazione del volume. Erano presenti anche il cardinale Ruini e l’Onorevole Massimo D’Alema. Mi ha colpito molto quando lei, prendendo la parola, ricordando l’incontro con Benedetto XVI, ricordò che non le chiese se credeva in Dio o qualcosa del genere o facendole domande sulla fede, ma le fece delle domande fondamentali. E lei si è trovato sollecitato e provocato. Ecco, ci può raccontare quel incontro e da che cosa è poi scaturito tutto questo dialogo e questo confronto interessantissimo con Lui e con i temi poi trattati nel suo saggio?
Pera – Si, volentieri. Intanto parlo di un incontro che è sia intellettuale che personale. Intellettuale lo è stato prima. Io avevo letto tantissime cose del cardinale Ratzinger e ne ero rimasto molto colpito perché mi sono trovato di fronte ad un autore che era molto profondo. Di vaste conoscenze, non soltanto teologiche, ma anche filosofiche e storiche, e
che mi aveva particolarmente colpito. Successivamente a questa esperienza intellettuale, che avevo avuto con le sue opere, l’ho incontrato come cardinale e poi come pontefice, e ho riscontrato in lui le caratteristiche di un uomo dolce e mite, di un uomo perfino umile, che sa intrattenere un interlocutore, che sa interessarlo e colpirlo.
Quello di cui gli sono grato dal punto di vista intellettuale, e cosa che supera la mia persona, è che questo papa, tutti lo potranno constatare, non si rivolge in modo particolare al mondo dei laici per cercare di convertirli o indirizzando loro dei sermoni o invocando benedizioni. Si rivolge al mondo dei laici interrogandoli sul loro stesso terreno dei laici, chiedendo per esempio che cosa è la laicità. E a proposito introducendo quella espressione di cui dovremmo essergli grati, della “sana laicità”, per distinguerla dalla da quella laicità che è diventata una ideologia laicista, cioè antiecclesiastica e anticristiana. E, rivolgendosi ancora ai laici, questo papa chiede un incontro, un colloquio, un dialogo, si direbbe, su temi che dovrebbero essere di interesse comune, sia che si abbia il dono della fede, sia che non lo si abbia. E cioè su questioni del tipo: ma come fondiamo noi, come giustifichiamo noi i nostri principi, i valori fondamentali, a cominciare dalla dignità della persona? Come possiamo entrare in discussione con altri che professano altri principi o che manifestano altri valori?
Ora, siccome questi principi e questi valori noi tutti ogni giorno diciamo che sono fondamentali, che sono scritti nelle nostre costituzioni, che sono la base della nostra cultura, della nostra civiltà. Siccome li consideriamo anche noi importanti, le domande del pontefice dovrebbero stimolarci tutti a entrare in quella discussione. (Quante possibilità di conoscenza si perdono proprio perché si chiudono le porte o si erigono muri ideologici e pregiudiziali! Ricordo che Einstein diceva che “è più facile spaccare un atomo, che un pregiudizio. Nota del trascrittore). Purtroppo – prosegue Pera – come lei già ricordava, citando un brano della mia prefazione al libro, ci sono stati molti, o perlomeno alcuni, rumorosi, che di fronte a queste domande oneste, sincere e fondamentali per tutti, hanno preferito chiudere la porta. Hanno preferito essere aggressivi, fino al punto – e tutti lo ricorderanno – di quell’episodio veramente triste, triste per ogni verso – ivi compreso per l’immagine che ne è uscita della Università italiana – di impedirgli di parlare e di discutere proprio queste questioni che tutti noi dovremmo invece trattare. Questa è la mia risposta alla sua domanda sull’incontro. È proprio intellettuale e personale.
Di Giglio –Ecco, se dovessimo oggi fare un sunto di che cos’è oggi Marcello Pera, in cosa crede, come si è formata questa sensibilità, questa cultura e questo impegno che oggi lei ci sta comunicando con tanta convinzione e con altrettanta attenzione?
Pera – Guardi, io credo di essere uno come tanti che sono cresciuti in una cultura, hanno apprezzato i beni di una civiltà e hanno dato per garantito, per scontato, che questi principi, questi valori della nostra cultura fossero fondamentali per noi, e che dovrebbero essere anche alla base del nostro incontro con gli altri. E questo è stato il mio pensiero per tanti anni. Sono come tanti un critico a volte delle posizioni della Chiesa cattolica, perché anche la Chiesa cattolica è anch’essa per alcuni versi una istituzione mondana; e che però ad un certo punto della propria vita si è trovato a interrogarsi. Questo anche dopo l’attentato dell’11 settembre. Dopo questo avvenimento io ho dato una interpretazione di quella aggressione che non era legata soltanto al terrorismo o al fanatismo islamico. Ho pensato che fosse veramente sotto attacco il cuore simbolico della nostra civiltà, e che noi (tutti ricorderemo i comunicati dei terroristi di quelle ore), venivamo attaccati perché – come loro scrivevano – siamo giudei e crociati. Cioè gli eredi della tradizione giudaico-cristiana. E allora mi sono interrogato. Perché? Che cosa è quella tradizione? Perché è fondamentale e importante per noi? E mi sono accorto che ciò che davo anche io come tanti, per scontato, per acquisito, perché faceva parte del nostro patrimonio, del nostro ambiente intellettuale e culturale, in realtà ascoltato non era! E mi sono anche accorto con tristezza che in realtà, mentre venivamo attaccati per la ragione che ho detto, noi quasi ci vergognavamo di esibire, di manifestare o anche di difendere la nostra tradizione ebraico-cristiana, e per quanto riguarda l’Europa, in particolare cristiana.
Così è nato un mio travaglio interiore, un mio bisogno di ricerca. Ho parlato tante volte e in diverse circostanze, da presidente del Senato e dopo in continuazione. Ad un certo punto ho sentito il bisogno di dare un ordine sistematico a tutte le riflessioni che avevo fatto. Interrogare prima me. Fare i conti con me stesso. Chi sono io. Perché sto difendendo la tradizione cristiana e il messaggio del Vangelo? E questo cercando di portare le mie ragioni in pubblico. Così è nato il libro!
Di Giglio – Grazie. Questo percorso mi sembra molto interessante. Ma io vorrei prendere spunto adesso da uno stimolo partendo da quel “Non possiamo non dirci cristiani” del filosofo Benedetto Croce, che lei supera col titolo del suo saggio. Vorrei che declinasse con un linguaggio semplice il perché di questa affermazione di Croce, e nel contempo perché lei s è spinto oltre, quasi lanciando un allarme col suo “Dobbiamo dirci cristiani”?
Pera – Anche Benedetto Croce si trovo ad un certo punto della sua vita – già filosofo affermato e uomo maturo, nel 1942 – ad un episodio che potrebbe essere l’analogo di di ciò che è capitato nella mia vita personale, dell’11 settembre. Nel 1942 siamo alla tragedia della Seconda Guerra mondiale, dopo che l’Europa aveva vissuto una ancora più terribile tragedia, che fu la Prima Guerra mondiale. Quella che spazzò via gli imperi e cambiò la geografia anche culturale del nostro continente.
Croce nel 1942 prende una decisione coraggiosa. Era un filosofo laico. Non aveva mai studiato con molta attenzione il fenomeno del cristianesimo. c’è un diario che ricorda i suoi tormenti notturni dove dice: “Domani voglio scrivere su questa cosa!”. Scrive un saggio, un breve, penetrante, acuto, coraggioso, drammatico e talvolta anche tragico, saggio; perché nel pieno della guerra, che lui interpreta come una “guerra di religione”, esattamente come la Prima Guerra mondiale. E dice delle cose fondamentali. Dice ad esempio che “il cristianesimo è stata la più grande rivoluzione morale di tutti i tempi. Che noi siamo ancora figli di quella rivoluzione. E che a quella rivoluzione noi dobbiamo le principali conquiste dell’Europa, e perciò dell’Occidente e del mondo. A cominciare dall’etica cristiana, per andare avanti con il fenomeno del monachesimo, per proseguire con la rivoluzione scientifica, ivi compreso l’illuminismo”. Cioè vede che il cristianesimo è stato l’elemento fondante. Aggiunge anche che “il cristianesimo è l’elemento principale che nutre la nostra civiltà”. E parla – lui, filosofo laico, non credente, liberale di antico lignaggio anche politico – parla di “essenza cristiana del liberalismo”. E dice: “Per questo noi non possiamo non dirci cristiani”. Siamo ancora qua. Siamo ancora figli del messaggio di Cristo e di Paolo”.
Perché io correggo la formula di Croce sul non possiamo non dirci cristiani, fino a dire: dobbiamo dirci cristiani? Questo non ha niente a che fare con il giudizio di Croce sul cristianesimo, perché io lo condivido pienamente, esattamente, tutto quello che ha detto. Ritengo anch’io che non si possa parlare di Europa senza il cristianesimo. Ritengo anch’io che non si possa parlare di liberalismo senza comprendere che il liberalismo e il cristianesimo “sono congeneri”, come ho scritto nel libro. Però dico qualcosa di più e cerco di spiegare perché Croce usa una formula che è apparentemente: (la doppia negazione. Non possiamo non…). Questo lo fa, non perché manchi di riguardo o di rispetto o di ammirazione nei confronti del cristianesimo, ma perché ha una concezione del liberalismo diversa da quella che io sostengo, secondo la tradizione antica del liberalismo…
Di Giglio – La interrompo un attimo perché i nostri ascoltatori possano comprendere. E mi riferisco al primo capitolo del suo libro, dove lei parla di liberalismo, equazione laica e questione cristiana. I liberali al bivio della religione. Ecco, dice che “la domanda più difficile per i liberali oggi è, che cos’è il liberalismo? Ecco, per chi ci sta ascoltando, di che cosa stiamo parlando?
Pera – Stiamo parlando di quella dottrina politica che sostiene varie cose, ma in particolare ha un nucleo centrale; un punto, diciamo così, dogmatico, che è il cuore della dottrina medesima. E cioè: “Gli uomini in quanto uomini sono titolari di diritti fondamentali e godono di libertà fondamentali, che non sono coercibili da parte degli stati e che non sono nemmeno concesse dagli stati”. In altri termini: “Gli uomini in quanto persone, e non in quanto cittadini o membri di stati o comunità, hanno questi diritti e questi fondamenti”. Questa è la tradizione classica del liberalismo. Quindi si tratta di parlare di libertà al plurale. La libertà di votare, la libertà di associarsi, la libertà di culto, la libertà di religione, di espressione, e così via. Sono le libertà fondamentali che competono a tutti, indipendentemente dalle razze, dalle storie, dalle geografie, dalle culture, dal censo, e così via. E competono agli uomini in quanto uomini, cioè in quanto persone. Questa è la dottrina che si trova in John Lock, in Kant, in Jefferson (il padre della costituzione americana), si trova in Toqueville, eccetera. La concezione che aveva croce – ecco perciò la correzione della formula – è una concezione diversa. Croce dice che, più che di libertà al plurale, si deve parlare de “la libertà”. Croce interpreta la storia come lo svolgimento dello spirito assoluto, che è appunto la libertà, e perciò Croce vede che nella storia è sempre all’opera la libertà, indipendentemente dalle circostanze storiche. Indipendentemente da quali diritti gli uomini abbiano, da quali gli sono riconosciuti, e così via. Lo sviluppo storico è di per se, secondo Croce, lo sviluppo della libertà. Vince sempre la libertà. progredisce sempre!
Allora è chiaro che se si ha questa concezione la domanda che nasce è, qual è il ruolo del cristianesimo? e siccome Croce – come dicevo prima è un ammiratore del cristianesimo, dovendo combinare, da un lato la sua ammirazione per il messaggio evangelico, e dall’altro lato la sua idea immanentistica che la libertà c’è comunque nella storia, ecco che arriva ad una formula che è un po’ riduttiva. E cioè, non possiamo non dirci figli di quella rivoluzione cristiana di Cristo e di Paolo. E aggiunge – ed è coerente su questo punto col suo immanentismo – e aggiunge che il messaggio cristiano è un messaggio che potrebbe anche essere superato con uno sviluppo della storia e della libertà. questa è la correzione che io faccio.
Se invece noi manteniamo l’idea che il liberalismo è quella dottrina che ho detto prima, allora, noi scopriremo che tra liberalismo e cristianesimo non c’è un legame soltanto storico: c’è un legame più profondo, ed è un legame concettuale. Questa è la mia correzione filosofica, diciamo così, alla impostazione di Benedetto Croce.
Di Giglio – E naturalmente per intraprendere questa strada c’è bisogno anche di una politica che abbia la capacità e la forza anche morale di intraprendere questo cammino. Vorrei usare come interfaccia una citazione di un altro autore che lei conosce molto bene, monsignor Rino Fisichella, che nel suo libro “Nel mondo da credenti”, parla delle ragioni dei cattolici nel dibattito politico italiano. Ecco, lui denuncia “l’incapacità della politica di fornire soluzioni plausibili ai problemi, e crea una inevitabile situazione di debolezza culturale e di conflittualità dei diritti e di confusione valoriale, che sfocia nella paura del futuro. Si crea, insomma, una sorta di vortice di incertezza che trascina inconsciamente ognuno di noi in uno stato di indecisione costante, in un profondo senso di impotenza e in una chiusura in se stessi a scapito del rapporto interpersonale. Spesso si ricava tuttavia l’impressione di una poca stima che la politica ha per se stessa e per ciò che produce. Quando personalità che hanno rappresentanza pubblica utilizzano nei confronti della legge termini quali “infame, indegna, assurda, talebana”, allora si rende evidente il disprezzo per ciò che un sistema democratico produce, e la mancanza di responsabilità per il vivere civile e sociale del paese. Penso sia utile questa affermazione di monsignor Fisichella per quanto riguarda l’’identità, che è l’argomento che adesso andiamo ad introdurre. Come possiamo portare avanti questa battaglia culturale con queste basi appena enunciate da monsignor Fisichella?
Pera – Si, io ho letto con attenzione e ho molto apprezzato il lavoro di monsignor Fisichella. Lo condivido in più punti, per esempio l’analisi che egli fa della situazione di oggi, che “ricorda – dice lui, e ne convengo – la lotta l’Europa ha già avuto molti secoli fa tra il cristianesimo e il paganesimo”. Ecco, a questo punto mi viene in mente di nuovo Benedetto XVI quando dice che “se c’è una guerra di civiltà oggi in giro, questa non è tra il cristianesimo e l’islam, semmai è tra l’islam e l’Occidente scristianizzato”, privo di religione, privo di fede. Condivido anche con monsignor Fisichella quello che lui chiama la poca stima che l’Europa, o l’Occidente, compreso il mondo politico, sembra avere di se stesso.
Credo anche che oggi ci sia bisogno – soprattutto da parte della politica (naturalmente sto parlando della politica alta, della politica di coloro che intendono avere una visione del mondo e dell’Europa) – abbia bisogno di una maggior consapevolezza della nostra storia, delle nostre radici e dei nostri valori. È proprio l’invito di monsignor Fisichella ad avere più stima! Noi dobbiamo essere consapevoli di quello che abbiamo fatto! Dobbiamo essere coscienti di chi siamo, perché questo è anche l’unico modo con cui noi potremo entrare in relazione con gli altri.
Vede, si parla tanto di dialogo, una parola abusata e spesso logora, ma com’è possibile avere un dialogo o comunque una relazione, entrare in contatto con gli altri, quando si è più inclini a comprendere le ragioni degli altri che non a difendere le ragioni proprie? Ecco che cosa dovrebbe fare la politica! Ecco cosa dovrebbero fare soprattutto i leader politici europei! Comprendere qual è la nostra vera identità europea! E difenderla! Non per essere arroganti! Non per essere invasivi degli altri, o irrispettosi, ma per essere consapevoli di sé.
Di Giglio – Noi ci troviamo sotto quella che Benedetto XVI ha definito la “dittatura del relativismo”, che crea un forte cortocircuito con la verità. Che cos’è l’Europa? Qual è il cuore dell’Europa?Qual’è la verità dell’Europa? Lei se l’è domandato. Addirittura ha fatto un giro immaginario nel cuore dell’Europa per cercare di raccontare questa realtà. Mi sembra interessante questo, per capire perché l’Europa ha perso la sua anima. Qual è quindi l’anima dell’Europa da recuperare?
Pera – C’è stato un periodo – che è durato per lungo tempo – in cui la definizione più corretta e anche più appropriata dell’Europa era “il continente cristiano”. Questo periodo è continuato fino ai primi tentativi di unificazione politica dell’Europa. I grandi padri costituenti che sognarono l’Europa unita: i De Gasperi, gli Adenauer e gli Shuman e alcuni pochi altri, e che tentarono la prima unificazione politica dell’Europa; il primo nucleo era l’Europa dei 6, avevano in mente – e lo scrissero e lo dissero tante volte – questa idea di Europa come portatrice della civiltà cristiana. Quel tentativo andò politicamente male. L’Europa non si unificò. Ci fu una crisi politica. Il primo disegno di unificazione cedette e si prese un’altra strada. Tutti ricorderanno la strada dei trattati, la strada dei commerci, la strada dell’economia, a cominciare dalla Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio.
Proseguendo la situazione si è aggravata dal punto di vista dell’ideale della unificazione politica perché, proseguendo nel tempo, quello che era il continente cristiano diventava sempre meno cristiano. Si assiste a mio avviso in Europa a quello che ho chiamato il fenomeno della “apostasia del cristianesimo”, il rifiuto del cristianesimo, il rigetto! Fino al punto, e l’abbiamo visto quando si discuteva il famoso preambolo della Costituzione europea – che era l’ultimo dei tantissimi tentativi di riprendere il processo di unificazione fino al punto che ci furono dei capi di stato e di governo che dissero «no!» al richiamo del cristianesimo come radice dell’Europa.
Allora oggi ci troviamo in questa situazione. Da un lato vogliamo proseguire il processo di unificazione. Il processo di unificazione non sta andando in porto. La Costituzione europea è fallita. È fallito anche il successivo trattato di Lisbona dopo il referendum irlandese. E dall’altro lato ci troviamo in una situazione in cui questo processo di unificazione avviene quasi nel vuoto culturale. Certamente avviene nel vuoto spirituale. L’Europa oggi non vuole dirsi cristiana. Questo significa che l’Europa sta perdendo l’elemento portante e fondamentale, il perno della sua identità. Già, ma se un paese, una nazione come vorrebbe essere l’Europa, una supernazione, non ha identità, non può nemmeno unificarsi. Questa è la mia analisi piuttosto amara e molto triste, del processo di unificazione europea.
Di Giglio – E lei lo scrive. Comunque questa nostra vecchia Europa porta con sé un guasto, una sorta di tumore genetico. Lei scrive che l’idea illuminista di vivere come se Dio non esistesse, non dà frutti. È sterile! Mentre accogliere la sfida di Benedetto XVI a vivere come se Dio esistesse, darebbe all’uomo contemporaneo una speranza che il nichilismo e il relativismo hanno finito per soffocare. Quindi lei sottolinea anche questa lacuna etica che dimentica totalmente il concetto di persone, e quindi emerge qui la miseria del laicismo. Mi sembra importante sottolineare questo aspetto per sensibilizzare gli uomini di buona volontà che vogliono cominciare a porsi queste domande e a costruire dal di dentro questo guasto, questo tumore.
Pera – Si, io sostengo che questo esperimento che l’Europa sta conducendo è uno dei tanti esperimenti nella sua tribolatissima storia, specialmente quello di voler vivere sneza il cristianesimo, senza Dio, come se Dio non esistesse. In altri periodi, nel secolo scorso questa tendenza ha fatto si che si avesse una Europa pagana. E ciò ha prodotto le più grandi, le immani catastrofi della storia dell’umanità! Non sta dando frutti questo tentativo, questo esperimento. Beh, intanto abbiamo visto che non sta dando i frutti della unificazione politica, e io credo che non li darà nemmeno in un ragionevole futuro. Ancorché si potranno inventare delle norme di governo un po’ più razionali, un po’ più semplici. Spero anche un po’ più democratiche!
Non sta dando frutto questo esperimento di vivere come se il cristianesimo non contasse niente, nemmeno dal punto di vista della cultura europea! Questa cultura sta infatti diventando sempre più arida e incapace di trascinare o di nutrire le coscienze e le menti dell’Europa. Non sta dando frutti perché stiamo assistendo in Europa a una deriva etica. Lei guardi tutte le nostre legislazioni, nei nostri parlamenti, sui temi etici o bioetici, in tutti i casi si assiste a un trionfo relativistico. Come se l’idea che ci sia un qualcosa di intangibile, di intoccabile, che era proprio una tipica idea, non solo cristiana, ma anche liberale, è come se questa idea non valesse più.
E quindi si assiste in Europa a quella che ho definito una “crisi etico civile”. C’è obbiettivamente un disagio morale. Tanta gente si chiede chi siamo. Tanta gente si chiede: ma perché non ci difendiamo? (Io direi anche: “ma perché non riscopriamo queste ricchezze?” Nota del trascrittore). E si vede il malessere. Rinascita di fenomeni di razzismo, Tensioni sociali, difficoltà a integrare gli immigrati, eccetera. Questo è il malessere dell’Europa! Ed è, secondo me, un malessere che deve essere connesso con il suo rifiuto, la sua apostasia del cristianesimo. allora, recuperare il senso di quella storia, di quelle radici, e soprattutto sottolineare il valore intrinseco di quel messaggio, è secondo me fondamentale per l’Europa, per superare, o perlomeno per cercare di guarire la sua crisi etico morale e civile.
Di Giglio – Ma lei si spinge anche oltre dicendo che noi dobbiamo vivere come se Dio esistesse, senza che però questo sconfini nell’imposizione. Si chiede anche come preservare la libertà personale da questo vivere credendo in una persona, in definitiva in Gesù Cristo?
Pera – Intanto io accolgo in questo libro, come avevo fatto in altri interventi, l’appello di Benedetto XVI a vivere come se… velux si Deus daretur, come se Dio esistesse. Ed è un appello che Benedetto XVI ha lanciato e che era stato raccolto da grandi geni dell’Europa, come Pascal o Emmanuele Kant. Perché vivere come se Dio esistesse, è vivere secondo una tradizione, è vivere secondo un credo e in principi e valori. Aggiungo poi che se uno vive come se Dio esistesse, deve essere aperto, deve concedere la disponibilità – quindi non deve essere chiuso e dogmatico – anche alla dimensione della fede, e cioè del credere in Dio! Naturalmente la dimensione della fede, del credere in una Persona, in un Incontro, in una Presenza, la presenza di Cristo, questa non può essere imposta! Non può essere dimostrata. Non può essere provata in alcun modo! A nessuno si può chiedere o dare l’imperativo: “Tu devi credere!”. Ma a tutti – secondo me – si deve chiedere e tutti devono rispondere affermativamente, che si è aperti a questa dimensione.
Il credente non solo poi è aperto… ad un certo punto avverte quella Presenza, e diventa seguace, e diventa missionario, e diventa un autentico credente. Colui che non è ancora riuscito a fare questo salto, colui che non ha ancora avvertito questa presenza, colui che magari soltanto la cerca e talvolta la cerca anche con dramma personale, deve però essere una persona – secondo me – disponibile a quella dimensione. Non chiuso! Quindi non positivista, non razionalista, non scientista, non dogmatico, e così via.
Purtroppo invece questo è un male di gran parte della elite europea: quello di negare persino la possibilità di un tale incontro. Basta guardare alla tanta letteratura aggressiva, ironica, irridente nei confronti del cristianesimo, che noi abbiamo in giro! Si pensa che la religione, in particolare la giudaico cristiana, sia un residuo del passato, sia qualcosa disperato, sia un ostacolo al trionfo della ragione. Ecco, noi dobbiamo correggere questa impostazione, e superarla. E, o siamo già coloro che credono, oppure dichiararci disponibili alla apertura della fede.
Di giglio – Vorrei, senatore , che lei si soffermasse un momento al capitolo in cui lei declina relativismo, fondamentalismo e questione morale. Lei parla della espropriazione della morale.
Pera – Esattamente. Io uso questa espressione perché dal punto di vista della nostra tradizione del liberalismo ci sono dei principi morali che sono naturali e che sono anche razionali, e per questo sono o devono essere condivisi da tutti. C’è una moralità che è condivisa – e questa è una idea anch’essa fortemente liberale – una moralità condivisa da tutto il genere umano: il bene e il male. Per essere più precisi, ad esempio, tutti gli uomini devono essere uguali e tutti gli uomini devono essere degni di rispetto. Che tutti gli uomini abbiano una dignità, e così via. Questo fa parte della morale condivisa, o, faceva parte della morale condivisa. Questo vuol dire che c’è qualcosa di intoccabile. Non si può usare lo strumento legislativo per correggere la uguaglianza, la parità, la libertà, la dignità, e così via. Sono i valori fondanti!(Certo, dovrebbe essere così, ma come mai è stato necessario il sacrificio di Cristo per tirarci fuori dai guai e dalle nostre concupiscenze? L’uomo, da solo non è quindi in grado di tirarsi fuori dai suoi guai! Nota del trascrittore).
Ad un certo punto che cosa accade nella evoluzione, e secondo me, nella degenerazione degli stati liberali, in particolare quando diventano stati democratici? Si comincia a mettere ai voti. Si comincia a pensare che anche i beni e i valori fondamentali possono essere oggetto di negoziato politico. E allora, ad esempio, si dice che la persona non è più sacra; oppure si dice che la persona è sacra, però il termine persona, il concetto di persona non si applica ai feti, agli embrioni, e così via. Come vede, si legifera nei nostri parlamenti, e si legifera su elementi fondamentali! Sui beni comuni, su quelli che tutta la tradizione liberale aveva sempre considerato irrinunciabili, intoccabili, intangibili.
Allora, lì, che cosa accade? Siccome si discute di queste cose in parlamento, siccome si vota, allora le maggioranze parlamentari, comunque si formino, e perciò i singoli stati, espropriano quelli che erano considerati diritti naturali e razionali dell’individuo, li espropriano e ne fanno oggetto di discussione politica. Passano quindi allo Stato. Poiché abbiamo detto prima che la teoria liberale dice che esistono dei diritti e dei valori che sono indipendenti dallo Stato, e che questi non può concedere e nemmeno disconoscere, oggi invece assistiamo – e questo è l’esproprio della morale – al fenomeno opposto. È lo Stato che concede, che fa delle deroghe, che stabilisce che cosa è fondamentale e che cosa non è. Questo è l’esproprio della morale di cui io parlo…
Di Giglio – E che ha delle radici anche più profonde. Lei ne ha fatto cenno nella presentazione del suo libro a Palazzo Uiddec, qui a Roma, quando ha detto che; “Quando un politico che ha degli incarichi molto alti difende soprattutto il discorso dello Stato laico, la laicità. Mentre lei ha fatto questo confronto – sollecitato anche da un interlocutore – dicendo che in America funziona diversamente, e cioè, qualsiasi politico, qualsiasi presidente si presenti, fa una premessa, che è la premessa religiosa. Ci può illustrare le ricadute di queste scelte e se c’è la possibilità che anche da noi qualcosa possa cambiare?
Pera – volevo ricordare questo fenomeno che forse qualche volta passa inosservato, ma i nostri ascoltatori certamente lo avranno notato, e cioè la differenza che c’è tra un leader politico europeo e uno americano. Parlo di leader politici importanti, capi di stato, capi di governo. Tutti avranno osservato che in Europa il linguaggio e la premessa che fanno è dire che sono “laici”, volendo far capire che non appartengono a nessuna chiesa particolare. Le rispettano tutte e pensano, così dicendo di essere più liberali, più rispettosi, più aperti, più tolleranti, eccetera. Al contrario negli Stati Uniti d’America, il suo presidente giura sulla Bibbia. E non dice mani, neanche quando è candidato a diventare Presidenti: io sono laico. Dice invece a quale religione appartiene, e continua a frequentare una chiesa. Anche l’ultimo presidente eletto, Obama, dichiara di essere un convertito cristiano e ha indicato qual è la chiesa che frequenterà tutte le domeniche.
È una differenza che colpisce l’immaginazione e la fantasia. Perché in America si fa la premessa: “Io sono religioso”, e si dice anche la confessione, mentre in Europa no? Perché la storia europea è diventata una storia di apostasia dal cristianesimo, di rifiuto della religione. Di rifiuto della tradizione, delle radici! (Oltretutto anche fra i cristiani uno degli sport preferiti è parlare male della Chiesa. Nota del trascrittore).
Per questo, ciò che è rimasto, è solo la formula vuota, generica, che dice tutto e il contrario di tutto, dicendo che si è laici, che non si ha affiliazione religiosa. Vuol dire anche: “La religione non conta per me”. Eh, la storia dell’America è completamente diversa! È la storia di un popolo che si dà la sua autonomia, libertà e indipendenza dall’Inghilterra proprio con una rivoluzione, che è al tempo stesso una rivoluzione politica e religiosa. Nella storia dell’Europa lei trova espressioni come: “Il popolo americano definito come la città sulla collina”, che è una immagine tipicamente cristiana o giudaica. Lei trova espressioni come riguardanti l’America come “il popolo eletto”, che ci ricorda l’influenza giudaica. Lei trova nei testi, nelle formule, nelle celebrazioni, nei riti, la preghiera del mattino. Lei trova i giuramenti con le formule religiose, eccetera.
Quello è un popolo che ha ancora la religione come elemento fondante della sua identità e della sua solidità di popolo. L’Europa non è più così. Il politico europeo è quindi molto rappresentativo del popolo europeo (non sempre, dice il trascrittore). Quando si candida dice di non essere religioso o può dire di essere ateo o non credente. Questo non sarebbe possibile in America. Nessuno che aspirasse a una alta carica politica potrebbe dire: “Io non sono un credente”. Costui sarebbe considerato con diffidenza o sospetto, perché non sarebbe considerato un buon cittadino. Strano questo, no? In Europa è il contrario! Incredibile la differenza!
Mi colpisce ogni volta che attraverso l’Atlantico! Per questa ragione mi piace di più l’America!
Di Giglio – E c’è chi lancia un grido, come ha fatto monsignor Rino Fisichella nel suo libro: “Nel mondo da credenti”, dove in un capitolo “fede e politica, un impegno condiviso”, nel paragrafo intitolato “Non possiamo tacere” dice: “A ritmi sempre più pressanti, con una forte carica d’arroganza si ode il comando laicista. Quindi i cattolici non prendano la parola su questioni che non li riguardano. Sorge spontanea la domanda: Ci sono questioni che non debbono interessare il mondo cattolico?”.
Può rispondere, senatore, a questa domanda?
Pera – Si, a me sorge spontanea la risposta di monsignor Fisichella. No, non ci sono questioni che siano estranee al mondo cattolico. Ovviamente stiamo parlando di questioni importanti, non della costruzione, poniamo, di un’autostrada! Perché non ci sono questioni che siano irrilevanti per la religione! Sono questioni di fondo, che riguardano l’etica, la religione, la cultura. Quindi questo atteggiamento europeo è proprio quello denunciato da monsignor Fisichella. Ed è una discriminazione che si fa nei confronti dei religiosi e dei credenti, e in modo particolare è un discriminazione contro il cattolicesimo.
Spesso l’obbiezione storica che viene fatta è questa: “Mah, la Chiesa ha molte colpe. Mah, la Chiesa ha commesso vari errori politici…”. E su questo si può discutere… Storici e filosofi sereni devono discuterne, per esempio dei periodi dell’assolutismo politico, durante il Risorgimento, durante il fascismo… Si può discutere… e con serenità! Ma ciò che non è in discussione, al di là dell’atteggiamento della Chiesa in questo o quel frangente storico, rimane fondamentale il messaggio cristiano.
Se poi si vuole parlare delle Chiesa e solo della Chiesa, e si voglia fare un bilancio, allora, a colui che faccia un bilancio completamente negativo, la mia risposta è: “Ma se non ci fosse stata la Chiesa, la nostra stessa civiltà europea – magari con tutti gli errori che possiamo attribuirle – sarebbe stata migliore, peggiore, o forse sarebbe stata spazzata via?
Di Giglio – Monsignor Fisichella scrive ancora nel suo libro: “Solo nella misura in cui siamo forti della parola del Vangelo, diventiamo anche un segno visibile e concreto presente nella società, come espressione di libertà e di fiducia nell’intelligenza dell’uomo che sa aprirsi al trascendente. Perché questo avvenga è necessario che laici e cattolici
scoprano la nostalgia per la verità e ne facciano di nuovo la loro inseparabile compagna di vita. La nostalgia per la verità”. Ecco, lei vede questa nostalgia per la verità da parte dei politici?”.
Pera – No. Occorre nutrirla l’idea della verità! Io vedo sempre più il contrario. Vedo la timidezza sull’idea della verità! Sono convinto che non c’è libertà senza verità! E che chi nega la verità, pensando di essere più libero, o di aumentare la libertà, in realtà le recide i fondamenti. Io credo invece che i politici dovrebbero sentire questo bisogno, questo richiamo. Poi si può essere veramente credenti o dubbiosi o scettici, però non si può non riconoscere che c’è comunque, al di là dei nostri dubbi, delle nostre incertezze, delle nostre difficoltà, c’è comunque un bisogno di verità! E se quel bisogno non viene coltivato, allora ciò che rimane è un terreno molto arido sul quale non si può piantare o seminare nulla!
Di Giglio – Concludo ancora con Rino Fisichella: “Se lo sguardo è fisso sulla verità non ci sarà conflitto alcuno. L’impegno nella politica potrà essere solo fecondo, e il riconoscimento delle differenze sarà percepito e vissuto come ricchezza da condividere e non come limite per la libertà”.
Pera – Si, come ho detto prima, bisogna cercare di nutrirlo questo bisogno. E non perché si debba imporre a chiunque di essere un credente, ma perché bisogna far ricordare a chiunque che se non c’è questo bisogno di verità, se non c’è la ricerca della verità, allora ciò che rimane è solo aridità, e cioè la ricerca del consenso, è l’amministrazione, è il potere, che magari può recare vantaggio momentaneo, ma che ci fa perdere i nostri valori fondamentali e la nostra identità.
Di Giglio – Ringrazia e saluta.