Marcello Pera: «Andrò da Urbani nella Rsa. Noi sapevamo scrivere le leggi e parlavamo alle toghe rosse»
L’ex presidente del Senato: e l’amico in casa di riposo: «Eravamo ingenui e sognatori»
di Tommaso Labate
«Giuliano Urbani e io siamo reduci di tempi eroici, segnati da grande entusiasmo ma anche grande ingenuità. Eravamo gente preparata, che aveva studiato, aveva scritto libri ma ne aveva anche letti. Che vuole, sognavamo con Berlusconi la rivoluzione liberale, pensavamo fosse possibile portare l’America in Italia; e, se non proprio l’America, quantomeno un po’ di America… E invece forse non era possibile, chissà», dice con un filo di voce impastato di malinconia Marcello Pera, che di buon mattino ha letto con un certo trasporto, per usare un eufemismo, il colloquio di Giuliano Urbani con la Stampa dalla casa di riposo in cui l’ex ministro dei Beni culturali aspetta la morte sperando arrivi il più tardi possibile, dice lui.
«Ci sentiamo, lo andrò a trovare presto. Sa, in politica di solito non si fanno amicizie, al più conoscenze strette. Invece la nostra è stata un’amicizia. Ricordo come lui e Antonio Martino mi accolsero in Forza Italia nel 1996, loro che c’erano sin dalla fondazione. Anche se, scherzando, le volte che mi incontrava in pubblico Martino diceva ad alta voce “ecco Pera, siamo arrivati alla frutta…”».
Pera e Urbani, così come Antonio Martino, erano le punte di diamante dei liberali di Forza Italia, i custodi di quell’ortodossia del 1994 che a un certo punto s’è dispersa, fino a diventare mal sopportata. Dice l’ex presidente del Senato: «Ha ragione Urbani quando ricorda la classe dirigente di allora confrontandola con quella del centrodestra di oggi. Noi, i professori, eravamo attrezzati, entrammo in Parlamento quando già sapevamo scrivere un disegno di legge. Nella legislatura del 1996, con Forza Italia all’opposizione, ci furono la legge costituzionale sul giusto processo, il processo di riforme fallito insieme alla Bicamerale e un certo dialogo che portavamo avanti, nonostante le asprezze, con personalità illustri che c’erano nel campo del centrosinistra. Penso a Cesare Salvi, a Luciano Violante, a grandi magistrati di Magistratura democratica come Salvatore Senese…».
Voi con quelle che Berlusconi definiva toghe rosse? Risponde Pera: «Dopo la vittoria del 2001, quando si stava lavorando al governo in cui Urbani avrebbe occupato la casella dei Beni culturali, io dovevo andare a fare il ministro della Giustizia. Era tutto già definito, avevo scritto un programma, immaginato la squadra. All’ultimo secondo Berlusconi mi chiamò per dirmi che sarei andato alla presidenza del Senato. Me la presi parecchio, discutemmo, ricordo che Silvio disse “ma di cosa parliamo, ti sto proponendo di fare la seconda carica dello Stato!”. Ecco, non le dico il nome, ma un importantissimo esponente di Md, una toga non rossa ma rossissima, si era proposto per fare il mio capo di gabinetto e lo sarebbe diventato se tutto fosse andato secondo i piani…».
Sembra una vita fa. Ricordi ormai sbiaditi di una stagione, insiste Pera, oggi senatore eletto con FdI, che andrebbe riraccontata per intero. «Giuliano dice che Meloni è una sorpresa. Io vado oltre, avendola vista all’opera da vicino: è una donna che avrebbe giocato alla pari, lavorando insieme ma anche dandogli filo da torcere, col Berlusconi del ’94. Ha invece molte ragioni sulle mancanze dell’attuale classe dirigente. Non è solo la questione semplice del togliere o meno la fiamma dal simbolo, è ancora più profonda: un pezzo del mondo intellettuale e accademico fatica ad avvicinarsi al mondo di Fratelli d’Italia ed è una pecca a cui la presidente del Consiglio deve trovare il modo di rimediare».
Pera e Urbani, finiti gli anni del berlusconismo, si crearono dal nulla un ultimo giro di valzer assieme mescolando accademia, politica e militanza. «Lo coinvolsi, insieme a molti altri esponenti del vecchio centrodestra, nell’associazione che radunava i liberali favorevoli alla riforma della Costituzione voluta da Renzi. Finì come finì ma la cosa più brutta fu un’altra: molto presuntuosamente, Renzi non solo non ci ringraziò mai. Ma non ci volle mai neanche ricevere. I nostri tempi, miei e di Giuliano, forse erano già cambiati…».
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