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Articolo su “ItaliaOggi”

Marcello Pera – O, se vogliamo essere più gentili: «Il termine Unione è una bugia» (Romano)

L’Unione Europea è morta

Ecco perché il patriottismo europeo non poteva funzionare

di Marcello Pera

Caro direttore,

diciamoci la verità: l’Unione europea è morta o, se vogliamo essere più gentili, «il termine Unione è una bugia», come ha scritto Sergio Romano. Per le ragioni che Lei ha chiarito meravigliosamente, oggi c’è solo la Germania, con la Francia attaccata ai polpacci tedeschi a far finta di essere protagonista.

Ad ammazzare l’Unione ci hanno provato i sovranisti, ma ci sono riusciti gli europeisti, per come l’hanno disegnata prima e guidata poi.

C’è una ragione di principio della morte dell’Unione europea, su cui non entro perché l’ho già detta tante volte: se la cittadinanza europea viene legata solo alla condivisione di un insieme di princìpi e valori, come dice il filosofo Habermas e hanno detto quelli che cercavano per l’Europa un’anima non religiosa (men che mai cristiana), allora, poiché questi princìpi e valori sono universali (libertà, uguaglianza, parità, ecc.), un europeo non è cittadino dell’Europa, ma cittadino cosmopolita, del mondo intero. E così la specifica identità storica, culturale, spirituale dell’Europa si perde. Qui mi soffermo piuttosto su ragioni più concrete, che provano perché il patriottismo europeo è diventato assai poco attraente e perché viene sempre più sostituito da quello nazionale.

Prova diretta. Se hai bisogno di sicurezza alle tue frontiere o dentro il tuo paese e vedi che l’Unione europea non ha un’agenda che lo soddisfi; se abiti in una zona periferica e l’Unione europea ti lascia solo a fronteggiare l’immigrazione; se mentre la pressione esterna di masse di gente disperate cresce e l’Unione europea consente che gli Stati nazionali chiudano le frontiere interne e sospende i suoi propri trattati; se hai paura della violenza o del terrorismo islamico e le élites europee ti rispondono che l’islam ha dato un grande contributo alla civiltà occidentale; allora il patriottismo europeo diventa il tuo primo bersaglio.

Prova inversa. Se le tue condizioni di vita peggiorano e la classe media si impoverisce rapidamente; se la mobilità sociale rallenta; se il lavoro retribuito decentemente diminuisce; se la competizione economica diventa globale, sparge effetti su più persone, ma abbassa il livello dei loro diritti; se lo stato sociale diventa sempre più costoso e sei costretto a pagare extra-costi individuali oltre ad una tassazione eccessiva; allora il patriottismo nazionale diventa uno scudo per difendersi.

Prova regina. Se il cittadino di uno stato nazionale si accorge che può ottenere protezione dall’Unione europea solo alla condizione di votare un governo ad essa gradito (di centro-sinistra), inevitabilmente avverte che quella istituzione non lo rappresenta affatto.

E lo stesso accade quando il medesimo cittadino osserva che quegli uomini e quelle forze politiche che hanno perduto le elezioni in casa propria sono gli stessi che sono cooptati alla guida degli organismi europei.

Niente suona più irrisorio e anche insultante che sentirsi dire che, poiché tu non conosci il tuo bene a casa tua, noi te lo insegniamo da Bruxelles.

Il virus ora intervenuto non ha colpe nella caduta dell’Unione europea, perché non ha fatto nulla di suo. Si è comportato come un tampone, mostrando che, nel momento del massimo bisogno, l’Unione è pronta a stracciare i propri patti, a violare i propri parametri, a chiudere le frontiere interne, a dare licenza agli Stati di indebitarsi ciascuno come vuole e quanto vuole, salvo poi strangolarli.

L’Unione ha gettato la palla agli Stati nazionali, l’europeismo si è affidato al nazionalismo. Anche se in articulo mortis i capi di stato e di governo riusciranno a stilare un accordo cartaceo sul finanziamento dei debiti (c’è da scommettere che lo troveranno) e lo condiranno con tanta retorica verbacea sulla solidarietà (c’è da scommettere che ne spargeranno tanta), l’Unione europea sarà al più una banca, che dà crediti dietro garanzie pesanti o a strozzo.

Ma una banca, come un’università, come un supermercato, non è una comunità morale. La banca ti manda in protesto se non la rimborsi, la comunità ti sorregge quando hai fame. A questa si può chiedere solidarietà, a quella si può al più domandare un po’ di clemenza quando ti invia l’ufficiale giudiziario.

Per non alimentare false speranze e cocenti delusioni (quella del piano Marshall europeo è la principale) sarebbe bene che le forze politiche nazionali prendessero atto della situazione e dicessero ai cittadini che la maggior parte dell’onere sarà sulle nostre spalle. E che sarà dura, molto dura.

Chi usa la metafora del «dopoguerra» deve sapere che non «andrà tutto bene», perché in quel lungo periodo (più di dieci anni prima del «miracolo»), assieme all’ammirevole sforzo per rinascere, ci furono fame, miseria (anche morale), accaparramenti e sfruttamenti, tessere annonarie, accattonaggio, corruzione, e poi scioperi, tumulti, violenze, manganelli della Celere e uno strascico di guerra civile che non è mai stato completamente assorbito, nonostante i tanti 25 aprile trascorsi a cantare «Bella ciao».

Siamo pronti per ripartire? Bisogna aver chiaro che ripartire oggi significa ridisegnare l’Italia, non correggerla qua e là, alla rinfusa, ma rifarla in larga parte, anche e in primo luogo nella sua vecchia costituzione. Su questo terreno, i due schieramenti si fronteggiano duramente, perché neppure l’emergenza sanitaria può mandare la politica in vacanza.

Guardiamo dal lato della maggioranza. La sinistra (il Pd, ché la carità ci impedisce di considerare i grillini) torna all’antico, scandendo una serie di equazioni, l’una peggiore, più sbagliata e più inutile dell’altra: sovranismo = populismo = nazionalismo = razzismo = fascismo = nazionalsocialismo. Il bravo Papa Francesco – quello che ha consentito la chiusura delle chiese e poi definito don Abbondio i preti chiusi in sacrestia – ha dato una mano, rievocando Hitler a proposito di Salvini (da cui Repubblica: «Cancellare Salvini»).

Oltre a ciò, la sinistra è bloccata dallo statalismo e dal giacobinismo, che essa stessa ha scritto nei codici degli appalti, nelle regole per la trasparenza e concorrenza, nell’autorità anticorruzione, nei reati di abuso d’ufficio, di traffico d’influenze, e tutto il resto della letteratura amministrativa e penale illiberale e forcaiola.

Poi, la sinistra ha, essa sì, mostrato allucinanti tic fascisti: la task force del governo per smascherare le false notizie dei giornali è una riedizione ridicola ma pericolosa dell’agenzia Stefani (ma forse pensano alla Tass), anche se nessuno sembra lamentarsene. E infine c’è l’europeismo inerziale, la neo-lingua sostitutiva dell’internazionalismo proletario, il cui crollo è ben stampato sui volti stupiti e negli occhi sbarrati dei vari Gentiloni, Sassoli, Gualtieri. Senza contare la sempre esaltata costituzione vigente, parte prima, caduta sotto i decreti legge e del presidente del consiglio, in un parlamento muto e vuoto, che discute poco e vota per delega. No, francamente, la sinistra non sembra essere in grado di ridisegnare l’Italia.

E la destra? Anche qui, caro direttore, dobbiamo dirci la verità: la destra oggi sta dicendo assai poco. Incerti se collaborare, perché la patria brucia, o opporsi, perché il governo li raggira; insicuri riguardo ad un possibile controribaltone parlamentare; attratti dalle «cabina di regia», dove si assumono le colpe del governo senza che la loro voce conti qualcosa; spaventati dal fantasma di Draghi; i leader di centrodestra sembra che sappiano dire solo «non basta». Ovviamente vero, come sempre quando si tratta di soldi. Ma posizione deludente, perché così si rincorre solo un governo palesemente impari e non si elabora una strategia alternativa propria.

Solo Forza Italia, a dire il vero, ha compreso l’occasione. Con l’intervista di Mariastella Gelmini a Salvatore Merlo e con gli interventi del presidente Berlusconi, Forza Italia è ritornata all’antica rivoluzione liberale. Bisogna liberarci della burocrazia, semplicemente saltandola, con una regola dell’autocertificazione simile a quella che oggi si usa per uscire di casa.

Bisogna riscrivere le norme sugli appalti, dimenticando i Cantone, i Cassese, i Bassanini, che ancor oggi pretendono di farla da maestri. Bisogna capovolgere i codici anticorruzione, senza darsi pensiero se i dottori davighi urleranno ai ladri in libertà. E a proposito di magistrati si dovranno rivedere tantissime cose, compreso l’esame di ammissione alla carriera, che oggi perpetua i vizi contratti, e le regole di promozione, che moltiplicano gli scandali come quello recentemente soffocato, intravisto e, chissà perché, sparito. E poi c’è la libertà d’impresa, c’è il fisco che deve essere abbassato, ci sono i rapporti con le regioni, c’è la costituzione, eccetera, eccetera.

Insomma, c’è tutta la rivoluzione liberale da fare. Ci pensi la destra: anche se il virus fa da polizza di assicurazione sulla lunga vita del governo Conte, non c’è più tanto tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

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