Dicono di me

Articolo su “Il Giornale”

13 ottobre 2006 

L’invasione

di Gaetano Quagliariello

“Sanatoria” è termine che evoca cedevolezza e lassismo. In politica, per questo, meglio evitarlo. Se poi in Europa c’è qualcuno che può prendersela a male, le ragioni per privilegiare altro vocabolo divengono ancora più consistenti. La cosmesi linguistica, però, non ha il potere di modificare la sostanza delle cose.

Ma se a fronte di 520.000 domande per immigrare legalmente nel nostro Paese, il “decreto flussi” predisposto dal nuovo governo (che corregge al rialzo quello emesso dal precedente) stabilisce di accoglierne 520.000, la faccenda la si può battezzare con i termini più fantasiosi: sempre “sanatoria” resta. Va poi considerato che quest’atto s’inserisce nel quadro di altri provvedimenti immaginati da Prodi e compagni per “fare fronte” all’emergenza immigrazione. Per l’essenziale due: un decreto che favorisce la riunificazione dei nuclei familiari, che dovrebbe portare nel nostro Paese circa due milioni di nuovi ospiti; la riduzione da dieci a cinque anni del periodo di residenza legale in Italia per poter presentare domanda di cittadinanza. Se la media europea del tempo necessario per definire i processi di naturalizzazione attualmente è di otto anni, la proposta del Governo Prodi contribuisce, dunque, ad abbassare sensibilmente la media. E lo fa proprio mentre altri Paesi – si pensi alla Spagna di Zapatero o alla Gran Bretagna di Tony Blair – stanno dando un consistente giro di vite alla loro disponibilità nei confronti degli immigrati. C’è da temere, dunque, che le definizioni dell’Italia come “porta d’Europa” (o quella meno politically correct di “colabrodo d’Europa”) che già circolano nei corridoi di Bruxelles, possano assai presto trovare riscontro nella realtà.

Io penso, però, che la perdita maggiore per il nostro Paese, se questa sciagurata politica non verrà corretta, non si registrerà nel breve periodo quanto, piuttosto, sulla frontiera lunga dell’integrazione. Con questi provvedimenti infatti si perde la possibilità d’impostare una politica razionale e non solo dettata dall’emergenza, alimentando così una contrapposizione insana tra lassismo e xenofobia.

I numeri non sono un’opinione. Se una massa tanto ingente di persone dovesse essere legalizzata in un lasso così breve di tempo, non ci sarebbe altra possibilità che assecondare le modalità d’integrazione care agli schemi del multiculturalismo. Per necessità ancor prima che per scelta. Così anche in Italia, e definitivamente, i diritti delle persone saranno considerati solo nel quadro di un più ampio diritto delle differenti comunità d’immigrati a considerare le proprie tradizioni, i propri costumi e le proprie leggi interne, sovraordinate rispetto alla legge della Repubblica italiana. Laddove questa strada è stata seguita, si è giunti a dei fallimenti storici. Le diverse comunità si sono giustapposte, ignorandosi e persino odiandosi. E così spesso – come nel caso degli gli immigrati di  seconda generazione in Inghilterra pronti a farsi saltare in area con uno zainetto sulle spalle -, si è creato terreno di coltura propizio per le forme più radicali di terrorismo.

A questo punto c’è da chiedersi: perché, nel momento nel quale in tanti stanno tornando sui propri passi, l’Italia deve spingersi a occhi chiusi fin sull’orlo del baratro? Per evitarlo, sia chiaro, nessuno propone di sbarrare le porte del nostro Paese o inaugurare una campagna denigratoria nei confronti degli immigrati. Anche se qualcuno lo volesse fare, sarebbero le stesse esigenze del mercato del lavoro a impedirglielo. Perché  la capacità dell’immigrato di reperire sul territorio le risorse per il proprio sostentamento è la prova logica che esiste un interesse delle categorie produttive – siano esse sommerse o meno – al reperimento di manodopera non disponibile sul mercato interno. E l’immigrazione, d’altronde,  sta divenendo sempre più anche uno strumento per introdurre nel nostro sistema elementi di alta specializzazione che possono contribuire ad aumentare il livello di competitività del Paese.

Proprio queste ragioni, però, imporrebbero di coniugare le ricadute positive  di un fenomeno epocale con le legittime preoccupazioni degli italiani  circa il destino della propria identità e del proprio modello di vita. Imporrebbero di abbandonare un approccio che si preoccupi solo d’espandere all’infinito la quantità dei flussi, per prendere in considerazione la loro qualità: i requisiti d’istruzione, di professionalità e quelli che si riferiscono alla cultura diffusa. Perché constatare che un pullman di ucraini giunti a Piazza San Pietro crea meno problemi di una carretta del mare proveniente dalle coste libiche non è razzismo; è soltanto una realtà di fatto.

Piuttosto che “sanare” a occhi chiusi, sarebbe necessario prevedere meccanismi di selezione “a monte”, responsabilizzando le imprese nella concessione dei permessi di lavoro che devono valere esclusivamente nel periodo di validità del contratto; condizionando il rilascio di permessi di soggiorno tout court alla capacità di reddito, alla conoscenza della lingua italiana e delle tradizioni culturali e religiose del nostro paese. La possibilità di fare domanda di acquisto della cittadinanza, infine, dovrebbe prevedere tempi congrui e, soprattutto, sull’esempio di quanto avviene negli Stati Uniti, essere condizionata al superamento di un esame non formale. In tal modo, l’acquisto della cittadinanza per naturalizzazione diverrebbe la meta di un percorso che inizia con la migrazione e si conclude con l’integrazione.

Tutto ciò è certamente più facile scriverlo che realizzarlo. Ma se non si blocca l’invasione che si profila all’orizzonte, ben presto scriverlo diverrà inutile e realizzarlo impossibile.

 

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