7 novembre 2006
Ecco che cosa dobbiamo esigere dagli islamici
Qual è il nesso fra teologia e cittadinanza? E fra la lezione del Papa a Regensburg e l’integrazione in Europa dei seguaci dell’Islam? Strana domanda: non c’è alcun nesso, manca qualunque anello intermedio. Eppure questo anello esiste, ed è la modalità del dialogo che la teologia cristiana ― se non bastasse il buon senso ― offre in una società multiculturale, come sempre più diventa quella europea. Ma siccome, anche detto così, il nesso resta criptico, occorre spiegarsi. È noto, ed è esperienza costante soprattutto di questi tempi, che un ostacolo all’integrazione proviene dall’identità religiosa. Le religioni, tutte le religioni, sono sistemi chiusi e incompatibili. Il cristiano che, con Gesù, predica: “ego sum via, veritas et vita”, non può pensare che, per la sua salvezza, ci sia un’altra via, verità e vita.
E così il seguace di ogni altro credo religioso. Ne deriva che, propriamente, non può esserci dialogo autentico fra religioni o, come ha detto di recente il Papa all’università Gregoriana, che il dialogo deve essere “senza ambiguità”, cioè senza rinuncia al cuore stesso della fede professata. La qual cosa impedisce il dialogo in senso stretto, perché ragione e scopo di ogni dialogo è proprio ciò che le religioni escludono: la possibile correzione dei punti di partenza e la possibile convergenza su soluzioni anche diverse da quelle iniziali. Allora, come integrare chi professa una fede in una società che in prevalenza ne pratica un’altra? Come evitare che l’identità religiosa diventi una barriera insuperabile all’integrazione? E se queste identità si rafforzano, come trasformare in collaborazione ciò che invece appare sùbito come fonte possibile di uno scontro fra culture diverse e irriducibili? Una via di uscita deve pur esserci, qualcosa si deve pur fare. 2 Intanto, c’è qualcosa che non si deve fare, e che purtroppo in Europa spesso si fa e parte della cultura europea sovente raccomanda. In proposito, un piccolo decalogo è utile. Non si deve chiedere all’immigrato la conversione alla religione prevalente della società ospitante. Sarebbe non solo una domanda di apostasia, ma una imposizione di perdita di identità. Non si deve chiedere la abdicazione alla propria religione da parte della società ospitante.
Sarebbe una resa alla religione dell’immigrato. Non si può chiedere la “privatizzazione” di tutte le religioni. Questa sarebbe una violenza contro il senso religioso delle persone e un mancato riconoscimento del ruolo pubblico che le religioni svolgono e intendono svolgere. Il credente non può limitarsi a testimoniare personalmente davanti al suo Dio; siccome nel suo credo sono in gioco la salvezza e i modelli di vita che la assicurano, il credente, quando professa la propria fede, intende andare oltre se stesso e coinvolgere tutti. Infine, non si può pensare che un dialogo lasciato libero e spontaneo produca automaticamente una convergenza. Sarebbe come credere nel sincretismo, ciò che è contrario alla logica interna di ogni religione, specie se monoteista.
E allora? Dove si trova quel terreno comune che ci può mettere al riparo dello scontro possibile? Nella sua famosa lezione di Regensburg (ora pubblicata da Cantagalli: Chi crede non è mai solo), Benedetto XVI ha indicato una strada, quella cristiana. Naturalmente, il Papa non parlava di integrazione degli immigrati, né di misure di accoglienza, e neanche di politica, e però da ciò che ha detto una lezione su questo terreno si può trarre. Il Dio cristiano è due cose. È caritas, cioè amore; è logos, cioè ragione. Questo Dio non solo crea l’uomo a sua immagine, ma lo ama, si prende cura di lui, parla con lui, stabilisce con lui un dialogo. Ciò avviene mediante la 3 ragione: quella ragione che Dio è, e che Dio dà all’uomo, è il terreno del loro incontro. L’una, infinita, intuitivamente comprende; l’altra, finita, discorsivamente apprende.
La seconda può non arrivare alla prima, ma non può escluderla, perché escluderebbe e negherebbe se stessa. Storicamente, le cose sono andate così perché, fin dall’inizio, il messaggio del Dio giudeo-cristiano, dal Javé di Mosé al Gesù di Giovanni, si è innestato sulla cultura filosofica e razionalistica greca. Ma il Papa non fa di questo incontro un accidente storico. Al contrario, ne fa una questione della natura stessa della fede cristiana. “Le decisioni di fondo ― egli ha detto a Regensburg ― che riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura”.
Da questo incontro della fede cristiana con la ragione è nata la teologia cristiana. La teologia ha prodotto interpretazioni. Le interpretazioni hanno prodotto immagini diverse del Cristianesimo. E queste immagini diverse hanno dato luogo a applicazioni e atteggiamenti diversi. Lo stesso Cristianesino di oggi è quello di sempre ― la fede nel Dio incarnato e risorto ―, ma, per fare un esempio, la Deus est Caritas non è il Sillabo. Oggi il Papa dice: fermiamoci all’interpretazione razionale e universale, e atteniamoci, in particolare, alla sua prima e fondamentale conseguenza. Essa, secondo le parole dell’ormai celebre oltre i suoi meriti imperatore Manuele II Paleologo, dice: “non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”. In breve, niente violenza o coercizione o guerra santa. Il Papa sa bene, e lo ha detto e scritto altre volte, che anche il cristianesimo, in tempi e luoghi, ha violato questo precetto. Ma, impegnando oggi il Cristianesimo a questa lettura, egli offre una base di incontro ai seguaci di tutte le religioni. Altro che offendere l’Islam: è l’esatto contrario! Il suo è stato un monito esplicito all’Occidente a non abbandonare il nucleo essenziale della sua tradizione 4 cristiana e un invito implicito alla tradizione musulmana a fare altrettanto. In passato è stato il Cristianesimo a doversi correggere e rivedere interpretazioni e pratiche sbagliate. Oggi è l’Islam a doversi interrogare.
La religione dell’islam ammette anch’essa il logos? Ha anch’essa una teologia auto-correttiva? Ha interpretazioni autentiche o vincolanti o autorevoli? La sua jihad è soltanto sforzo e lotta spirituale o ammette qualcosa di più? Se le risposte sono positve, le cose restano difficili ma promettenti; se sono negative, la situazione diventa assai grave. Se vogliamo convivere, e dobbiamo, le risposte devono però essere positive. Ma come si fa a saperlo? Escluso il dialogo interreligioso, resta il livello culturale e politico. Si tratta del livello di quei princìpi e valori che le religioni sostengono oppure negano, e che producono oppure non producono diritti della persona. Ad esempio, l’uguaglianza di tutti gli uomini, la parità uomodonna, la giustizia, la libertà, la democrazia. È su questo livello, mondano e laico e non celeste e religioso, che i politici devono lavorare. Essi devono sapere che l’integrazione dell’altro con noi è vincolata al rispetto di princìpi e valori fondamentali, per noi e per l’altro.
Ma come si ottiene e come si valuta questo rispetto? Si ottiene con l’educazione. Si valuta con la sorveglianza. Qui è l’anello intermedio di quel nesso apparentemente misterioso fra teologia cristiana e integrazione degli immigrati di cui si diceva all’inizio. Chi vive e intende vivere fra noi deve dar prova di essere educato alla cultura del rispetto dei diritti fondamentali che il cristianesimo, col tempo, ha saputo diffondere e che, sempre col tempo, sono diventati patrimonio laico e universale. Così diventa cittadino. Dunque la strada dell’integrazione è: un tempo congruo per l’educazione, un test di cultura dei diritti, infine la cittadinanza. La strada prevista dal disegno di legge del Governo sulla cittadinanza è precisamente l’inverso: prima la 5 cittadinanza appena trascorso un tempo breve, poi il test.
Questo è un errore per varie ragioni. La cittadinanza non è ospitalità. La cittadinanza non è neppure solidarietà. La cittadinanza è sovranità. E può diventare sovrano di uno Stato solo chi ne conosce e apprezza i princìpi fondamentali. Se si prosegue affrettatamente la strada inversa le conseguenze sono tutte negative: non si agevola il dialogo culturale, si perde identità, si crea incomunicabilità, si producono tensioni sociali. L’esperienza quotidiana di paesi come la Francia e l’Inghilterra e, sempre più, anche l’Italia dice che questa strada dell’integrazione è un errore. La teologia cristiana aiuta a capire perché. Il nesso, dunque, c’era.