Interventi

Giovanni Falcone, servitore di questo Stato,

Capaci, 23 maggio 2004

Discorso pronunciato a Capaci per l’anniversario della strage in cui persero la vita Giovanni Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta

Con la doppia stele che noi oggi scopriamo riportiamo alla nostra memoria Giovanni Falcone, dodici anni dopo che fu assassinato dalla mafia con una strage compiuta in questo luogo, dove, con lui, lasciarono la vita sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani.

La stele serve a ricordare. Ma se vogliamo davvero ricordare Giovanni Falcone, non possiamo limitarci alla dimensione della sola memoria. Dobbiamo fare di più. Dobbiamo dare un senso alla sua vita, al suo lavoro, al suo sacrificio. Perché un uomo vive ancora se la sua opera continua a dare a noi una guida, un aiuto, un esempio. E nessun uomo muore mai definitivamente fino a che si pone come punto di riferimento delle nostre discussioni e azioni.

Il senso che dobbiamo cercare è certo umano, ma è soprattutto istituzionale. Giovanni Falcone fu in primo luogo un giudice istruttore e un inquirente. In questa veste, vantò operazioni difficili, come le indagini su “Pizza Connection”, “Iron Tower”, “Pilgrim”. Vantò la collaborazione di mafiosi di rango. Vantò lo svelamento della struttura del potere mafioso. E soprattutto vantò il maxiprocesso di Palermo, istruito con le forze di polizia, in particolare con l’allora Dirigente della Criminalpol Gianni De Gennaro.

Giovanni Falcone fu poi un magistrato scrupoloso. Come tutti sanno – lo ha detto più volte il senatore Giuseppe Ayala che fu pubblico Ministero al maxiprocesso – egli non perse mai un processo in tribunale. Lo stesso maxiprocesso che si concluse a Palermo il 16 dicembre 1987 con centinaia di condanne fu confermato in appello il 31 gennaio 1991 e infine in Cassazione il 30 gennaio 1992.

Giovanni Falcone fu quindi un amministratore di giustizia, un riformatore, un consulente prezioso del ministro della Giustizia Claudio Martelli. A lui si devono una serie impressionante di misure prese nel 1991 per il contrasto alla mafia: sull’incarcerazione dei boss mafiosi, la custodia cautelare aggravata, i collaboratori di giustizia, la Direzione nazionale antimafia, la Procura nazionale antimafia e le procure distrettuali, l’antiracket, l’aumento dei termini di custodia per i mafiosi.

Giovanni Falcone fu infine uno studioso dei problemi delle indagini, del processo, dell’ordinamento giudiziario. Critico del nuovo codice di procedura penale, lo accettò come una sfida. Due punti fondamentali egli pose a base della sua riflessione. Il primo è l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Il secondo è l’efficienza. Assieme formano un trinomio. Autonomia e indipendenza costituiscono il presidio, l’efficienza è la guarnigione per tutelarlo, non solo dall’esterno, ma anche dall’interno. Perché autonomia e indipendenza non rischiano di cadere solo sotto spinte che vengono da fuori, ma anche a causa di comportamenti, individuali o di gruppo, assunti dentro il corpo stesso della magistratura.

Disse Falcone l’8 maggio 1992, quindici giorni prima di cadere vittima della mafia: “l’autonomia e indipendenza della magistratura sono anzitutto un valore storicamente da valutare, ma soprattutto un valore che ha una sua razionalità, una sua giustificazione, una sua logica, una sua spiegazione, in quanto costituisce non un privilegio di casta, non un privilegio della magistratura o qualcosa di riservato a una élite dello Stato. L’inamovibilità, l’autonomia, l’indipendenza sono valori, oltre che princìpi costrituzionali, che servono per l’efficienza della magistratura, non meno che per l’efficienza della pubblica amministrazione in genere”.

In questa logica – aggiunse – il pubblico ministero deve essere “autonomo e indipendente, ma anche efficiente”, e perciò “deve avere un tipo di regolamentazione ordinamentale che sia differente rispetto a quella del giudice. Non necessariamente separata”.

E ancora, a proposito del rapporto pubblico ministero-polizia giudiziaria: “Abbiamo fatto, o hanno fatto, un codice di procedura penale in cui il rapporto di dipendenza della polizia giudiziaria rispetto alla magistratura è ormai pressoché integrale, ed ecco che cominciamo a renderci conto che forse, anche qui, le cose stanno in una linea mediana, per evitare da un lato che il funzionario di polizia si senta deresponsabilizzato, e dall’altro che il pubblico ministero, spesso non dotato di una sufficiente professionalità, possa creare problemi alla conduzione delle indagini, mediante direttive che non sono adatte a quel singolo caso”.

Sono questioni che, a dodici anni di distanza, si pongono ancora a noi. Le idee di Falcone sull’argomento possono essere condivise o criticate, ma non dovrebbero essere ignorate. Sarebbe vano, e anche colpevole, alzare una stele alla sua persona e dimenticare le sue idee. Sarebbe poco onesto lodarlo e non prenderlo in seria considerazione. Il calcolo, la convenienza, il dosaggio, non si addicono all’omaggio sincero. Né ci aiutano a risolvere i nostri problemi, quelli stessi che furono anche i suoi problemi. Ecco perché, se non vogliamo dimenticarlo, dobbiamo ripensarlo.

Dobbiamo ripensarlo perché il trinomio che lo guidò è ancora un problema aperto di fronte al Parlamento. Dobbiamo ripensarlo perché il contrasto alla criminalità mafiosa, nazionale e internazionale, è una sfida continua che mai dobbiamo cessare di perseguire.

Dobbiamo ripensarlo perché Giovanni Falcone fu un eroe che merita rispetto e ammirazione. Disse di sé: “Io, Giovanni Falcone, sono un uomo di questo Stato. Io credo alle istituzioni”. Oppure: “Io sono solo un servitore dello Stato”.

Quel “solo”, in apparenza così modesto, è in realtà il segno della sua grandezza. Una stele è una pietra tombale se non ci crediamo anche noi, a questo Stato. Una stele è un omaggio se invece anche noi vogliamo seguirne l’esempio.

 

 

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