Positano, Dibattito sulla libertà di stampa, informazione e formazione dei giornalisti
1. La libertà della stampa: un dibattito con mezzi impropri
Premetto che non sono interessato a discutere se la nostra stampa sia o no libera. E neppure sono interessato a discutere su quando abbia goduto di libertà e quando l’abbia invece perduta, e perchè. Ancor meno, mi interessa la polemica sul “regime”. Se mi limito alla mia esperienza personale, trovo che la situazione di oggi non sia diversa da quella di ieri.
Forse sono cambiate le aspettative. Ad esempio, al tempo in cui cominciai a leggerli, scorrevo alcuni giornali per sapere che cosa pensavano e volevano gli imprenditori, i finanzieri, i capitalisti, insomma la destra. Oggi leggo gli stessi giornali per conoscere il pensiero dei borghesi illuminati, dei laicisti raffinati, degli intellettuali accreditati, insomma la sinistra. Ma, quanto alla libertà, non vedo differenze di rilievo. C’è in Italia grande varietà e grande vivacità. Se fossi costretto al gioco “libera-non libera”, direi che la nostra stampa è oggi almeno tanto libera quanto lo era ieri, anche se propendo a pensare che lo sia assai di più.
Faccio questa premessa per dire che il dibattito sulla libertà di stampa è, se vogliamo essere onesti, un dibattito politico condotto con altri mezzi, pro o contro Berlusconi, oppure pro o contro la seconda Repubblica, la Costituzione, il bipolarismo, le riforme, o che altro l’agenda politica ci pone davanti ogni giorno. E anche per dire che il nostro è un paese libero con una stampa tanto libera quanto quella di altri paesi liberi.
Su questo punto, non si dovrebbero accettare lezioni: anche i media stranieri hanno i loro editori e lettori. E anche i premi Nobel per la pace, nel loro piccolo, si arrabbiano con la stampa. Quando siamo portati davanti al tribunale della cosiddetta “opinione pubblica internazionale”, credo che dovremmo usare almeno un po’ di scettica ironia, ben sapendo che parlare grosso e all’ingrosso dell’Italia è uno dei divertimenti preferiti del lettore tedesco che tutti gli anni passa le vacanze in Italia e non la lascerebbe per nulla al mondo, o del lettore inglese che ha la villetta o soggiorna nell’agriturismo in Toscana e che non si sposterebbe neanche a cannonate, o di tutti quegli stranieri che amano il nostro paese fino al punto di venire da noi in massa con la convinzione, purtroppo fondata, che qui possono fare tutto ciò che a casa loro neppure si sognerebbero.
Invito me per primo a riflettere. Il tribunale dell’opinione pubblica internazionale è sospetto, perchè i giudici-lettori internazionali hanno tutti i pregiudizi, gli stereotipi e le idiosincrasie consuete di quel fòro: per loro, l’italiano non è forse, sempre e comunque, un po’ ladro, un po’ furbo, un po’ corrotto, un po’ pasticcione, un po’ trafficante, un po’ mafioso? Sul tema abbiamo la nostra migliore letteratura sulla quale facciamo amari sorrisi. Credo che il sorriso sia la reazione più appropriata anche alla letteratura altrui. E magari al sorriso si dovrebbe accompagnare una riflessione, penso non banale: che, se mai ci sarà un’Europa unita, i popoli europei dovranno abituarsi a stare fra loro come, ad esempio, i lombardi stanno con i calabresi o i friulani con i campani. E non parlo dei toscani, in particolare dei lucchesi, perchè quelli staranno sempre da sè e faranno comunque eccezione alla regola, anche con l’Europa unita.
2. Il giornalista liberale e il giornalista democratico
Abbandonando questo terreno, sono però interessato a due concetti che ho già menzionato: uno, va da sè, è quello di stampa libera, l’altro è quello di opinione pubblica. Il mio problema è: quale rapporto c’è fra stampa libera e opinione pubblica, e fra queste e la democrazia? Qual è il ruolo della stampa libera?
Esiste, in risposta a questa domanda, una tesi così diffusa che potremmo chiamarla la tesi convenzionale. à questa: la stampa libera dà forma all’opinione pubblica e l’opinione pubblica è il fondamento della democrazia. Anche se questa tesi è accettata pressochè da tutti, io vorrei discuterla e, se possibile, correggerla.
Immagino che questa intenzione mi valga la qualifica di non essere troppo amico della democrazia. E infatti non lo sono: sono molto più amico del liberalismo che della democrazia. Per una mia convinzione radicata: che il liberalismo si interessa al disegno, alla forma, all’equilibrio e ai limiti fra le istituzioni, mentre la democrazia si interessa del contenuto, dei programmi e dell’azione delle istituzioni. Il liberalismo esalta l’individuo e la società civile come portatori di libertà, la democrazia innalza invece lo Stato come distributore di giustizia e uguaglianza, anche contro la libertà del singolo. Il liberalismo è una filosofia pessimista: prende atto che l’umanità è un legno storto sotto qualunque latitudine e cerca quei rimedi minimi necessari affinchè il legno di uno non si abbatta sulla testa di un altro. La democrazia è una filosofia ottimista: pensa che l’uomo sia nato dritto e poi si sia curvato sotto il peso dei malvagi, e pensa di poterlo rendere virtuoso e felice, e crede anche di poterci riuscire, magari talvolta con qualche salutare violenza alla sua libertà personale. Il liberalismo crede invece che la virtù sia un ideale, che si può perseguire solo mettendo gli uomini, sempre infelici, nelle condizioni di non nuocere gli uni agli altri. Personalmente, resto fermo al celebre principio di Kant: “nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo”. Era il 1793, ma vale anche oggi.
Come il liberalismo e la democrazia intendono le funzioni delle istituzioni in maniera diversa, così intendono anche il ruolo della stampa in maniera diversa. Per il liberalismo, la stampa è uno dei modi in cui si riflette la libertà della società e la sua funzione è l’esercizio della libertà. Per la democrazia, la stampa è uno dei modi con cui formare l’opinione pubblica e la sua funzione è l’addestramento alla virtù.
Sono due figure assai diverse, e anche divergenti, quella del giornalista liberale e del giornalista democratico. Tutti e due osservano, riferiscono e commentano. Tutti e due avvertono lo stesso còmpito professionale di stare ai fatti. E tutti e due reclamano libertà. Ma poi divergono. Il giornalista democratico sente di avere un dovere in più su quello liberale. Per lui, la stampa ha non solo la funzione di espressione, di raccolta della notizia, di trasmissione dei fatti o di commento, ha anche una funzione formativa, pedagogica, educativa. Per il giornalista democratico, la stampa è paideia, è scuola, è palestra: perciò deve essere maestra, deve partecipare a far comprendere la verità, deve far crescere la coscienza dei cittadini, deve smascherare e smitizzare, edificare e proporre. Insomma, deve costruire un’opinione pubblica di cittadini virtuosi, precisamente come virtuosi li vuole la democrazia.
Credo che proprio questo dovrebbe essere il vero nocciolo del dibattito sulla nostra stampa. Per come lo vedo io, il problema non è: la nostra stampa è libera o no?, perchè lo è. Il problema è: la nostra stampa intende essere libera nel senso della stampa liberale o libera nel senso della stampa democratica, come le ho appena definite? Gli addetti all’informazione devono essere chierici professionisti che ascoltano, riferiscono e commentano, oppure attori protagonisti di una sceneggiatura?
So bene che questo modo dicotomico non rende piena giustizia alla situazione, perchè ci sono tanti modi di esercitare onestamente la professione giornalistica. E tuttavia la distinzione concettuale resta e lascia il segno: il giornalista democratico non è lo stesso del giornalista liberale. Si può optare per l’uno o per l’altro, magari mescolarli un po’ assieme, ma si tratta di figure diverse. Io amo il giornalista liberale e non quello democratico, ma la mia preferenza non conta nulla. Se esistono due figure, è su come l’una o l’altra rispondano meglio alle esigenze del mestiere che si dovrebbe discutere, non sulla libertà del mestiere, che, ripeto, è tema surrettizio da polemica politica.
3. I paradossi del giornalista democratico
Avendo distinto due figure, riprendo ora la tesi convenzionale circa il ruolo della stampa, e cioè, la ripeto, che la stampa libera forma l’opinione pubblica e l’opinione pubblica fonda la democrazia. Chiaramente, è una tesi più da giornalista democratico che da giornalista liberale. Che cos’è che lascia perplessi? La tesi convenzionale contiene e nasconde due paradossi. Li chiamo i “paradossi del giornalista democratico”.
Il primo paradosso è: se la stampa libera deve formare l’opinione pubblica, allora, poichè l’attività di formazione richiede un programma formativo, la stampa libera deve essere militante, perchè deve essere a favore di un programma contro altri programmi.
Il secondo paradosso è: se la stampa libera, formando l’opinione pubblica, fonda la democrazia, allora, poichè la democrazia richiede idee sostanziali su uguaglianza, cittadinanza, giustizia, eccetera, ugualmente la stampa libera deve essere militante, perchè deve abbracciare una di queste idee sostanziali a preferenza di altre.
La domanda che si pone ora è: la stampa militante può essere libera? Libera nel senso di non subire costrizioni esterne, certamente sì. Ma libera nel senso che dà a se stessa un’etica uguale per tutti, temo di no, perchè l’etica della stampa militante è quella delle conseguenze da ottenere, dello scopo da perseguire, e quest’etica è come il programma di un partito politico, vale per alcuni individui o gruppi o settori, non per tutti. Concettualmente e di fatto, formare l’opinione pubblica e fondare la democrazia sono attività tipicamente, eminentemente, politiche. Perciò il giornalista democratico è un politico mascherato. à onesto quando lo dice, è insincero quando lo nasconde, è insidioso sempre, appunto perchè porta una maschera, e talvolta una casacca, un elmetto, una divisa. Come egli stesso si autodefinisce, è una “sentinella”.
La sentinella richiama l’esercito, la caserma, la lotta; ma la sentinella ha poco a che fare con l’informazione. Se uno informa, non combatte. Se uno informa, non fa battaglie. Se uno informa, è in prima linea per vedere e riferire meglio, non per aggiustare la mira dei tiratori. Queste sono attività dei politici e dei cittadini informati, non di chi li deve informare.
Consideriamo il modo in cui il giornalista democratico risolve, diversamente dal giornalista liberale, il problema principe della professione, e si rifletta sul celebre detto comune all’uno e all’altro: “tutte le notizie verificate si devono dare”. à noto che alcune notizie sono innocue, altre sono curiose, altre sono pelose, altre utili, altre fondamentali, altre dirompenti. Tra queste, alcune sono pericolose per il mantenimento stesso della democrazia. Il caso di scuola è la notizia sulla strategia di un governo o di un esercito durante il tempo di guerra. Si pubblica anche quella?
Il giornalista liberale e il giornalista democratico sanno bene quanto sia difficile risolvere questo problema. Ma il giornalista democratico, grazie proprio alla missione democratica che si autoassegna, non ha solo il problema di scuola di bilanciare i princìpi della professione con le conseguenze del suo esercizio, ne ha uno in più. Egli, proprio perchè intende essere un educatore democratico, non si chiede soltanto: quali notizie è utile pubblicare? ma: quali conseguenze delle notizie sono più vantaggiose per la democrazia? E siccome la democrazia è la sua concezione della democrazia, cioè la sua propria visione del bene, della virtù, del progresso, dell’uguaglianza, eccetera, il giornalista democratico, che è un militante per la democrazia, si trova, da un lato, a fare il censore di certe notizie e dall’altro il promotore di certe altre. Così, ad esempio, ora fa il moralista, ora fa il libertino. Ora denuncia la censura, ora si autocensura. Ora prende un peso, ora ha due misure. Sempre in buona fede, ovviamente, ma sempre a seconda delle conseguenze che egli, non il lettore, giudica utili o dannose.
So di poter essere frainteso e non vorrei esserlo. Non sto dicendo che il giornalista democratico è alle dipendenze e il giornalista liberale è invece libero. Sto richiamando una distinzione fra due figure entrambe libere che corrispondono a due modi entrambi praticabili di esercitare la professione. E sto dicendo che il giornalista democratico è inevitabilmente indotto a diventare militante e così a compromettere la propria libertà. Personalmente, lo ritengo un male: quel tipo di giornalista non aiuta nè l’opinione pubblica, nè la democrazia. E ancor meno aiuta la credibilità della professione che svolge.
4. Il pericolo dell’opinione pubblica
La mia seconda e ultima osservazione critica contro la tesi convenzionale del ruolo della stampa riguarda la sua convinzione di formare l’opinione pubblica.
à noto che i pensatori liberali non amano molto questo concetto. Popper, ad esempio, scrisse che “l’opinione pubblica è assai potente. Essa può cambiare i governi, anche quelli non democratici. I liberali dovrebbero guardare con un certo sospetto a un qualsiasi potere del genere”, perchè “l’opinione pubblica è una forma di potere non responsabile”. Più avanti negli anni, Popper propose anche la patente e la censura per coloro che fanno televisione. Era un liberale che si contraddiceva? No, era uno di quei tanti liberali coerenti, i quali, come sono contrari ad ogni forma di monopolio economico, così sono ugualmente contrari ad ogni forma di potere privo di contropotere.
Ora, se la stampa che forma l’opinione pubblica è un pericolo, perchè è priva di controlli (se non quelli fondamentali ma non decisivi del pluralismo e dell’autocontrollo), allora la stampa libera è come un’istituzione senza contrappesi. I liberali sono sempre stati preoccupati di queste situazioni. E giustamente, perchè le istituzioni fanno molto ma non sono tutto. Un paese in cui ci sia un parlamento liberamente eletto, un governo controllato, una magistratura indipendente, eccetera, non è di per sè, per questo sol fatto, un paese liberale e neppure necessariamente un paese democratico. Perchè se quelle istituzioni ci sono ma non sono rispettate, se si fanno guerra fra loro, se violano le loro competenze, allora sono inutili. Perchè funzionino correttamente, hanno bisogno di una tradizione, cioè di un costume collettivo, di un comportamento adeguato diffuso. Così è anche per la stampa: che sia libera, non basta. Siccome è pericolosa come un’arma, bisogna che sia trattata come un’arma, cioè che sia responsabile. La responsabilità, per la stampa, è l’equivalente della tradizione o del costume per le istituzioni. à il meccanismo di sicurezza essenziale affinchè l’arma non si metta a sparare da sè, all’impazzata.
Ma la responsabilità non è collettiva. Riguarda i singoli. E perciò il discorso si sposta dalla stampa agli operatori della stampa, ai giornalisti. Sono loro che devono essere responsabili. La domanda è: lo sono? Questa domanda ne trascina molte altre.
Ad esempio, è responsabile il giornalista che non sia scrupoloso con le sue fonti? Che sia approssimativo con i fatti? Che apra o chiuda le virgolette anzitempo o non le usi affatto oppure le usi per riferire non le parole altrui ma un riassunto proprio? Che non sia competente delle materie che tratta? Che non abbia una cultura adeguata? Che sbagli le date, i luoghi, i nomi e cognomi? Che strizzi l’occhio al telespettatore? Che gli urli in faccia? Che lo consideri un allievo da istruire e non un adulto da mettere a parte di un fatto? à responsabile quel giornalista che sia poco interessato al contenuto di una notizia e lo sia molto a quello che egli considera il senso della notizia?
Credo che siamo tutti d’accordo nel dire che no, un giornalista siffatto non è responsabile. E forse siamo anche tutti disponibili a darci una pacca sulle spalle, dicendo che casi simili sono pochi e isolati. Concordo: ho già detto che, a mio avviso, la stampa di oggi è migliore di quella di ieri. Ma questo non è consolatorio. Perchè il problema non è quanti casi, il problema è quale cultura. Il problema è l’atteggiamento che si assume nell’esercizio della professione e le modalità di addestramento alla professione.
à inutile negarlo. Viviamo tempi di bassa marea. La qualità e il costume si stanno abbassando ovunque, nelle istituzioni, nella scuola, nelle università, nelle amministrazioni, nella politica, nelle aule giudiziarie, nelle professioni liberali. E si stanno abbassando anche nella stampa. Subiamo, e purtroppo tolleriamo, la sgrammaticatura, l’approssimazione, il ragionamento all’ingrosso, gli addestramenti carenti, le competenze vacillanti. Non intendo elevare il solito lamento sulla “morte del congiuntivo”, anche se lo rimpiango assai, intendo osservare che pratiche e costumi un tempo inaccettabili ora passano inosservate, come se la tolleranza della decadenza fosse una virtù.
Forse, come i liberali hanno sempre protestato, tutto questo è un effetto non voluto o una conseguenza non desiderata della democrazia. Ma non ci dovremmo arrendere. Cominci la stampa: se darà esempio di responsabilità e di qualità in una società che ne scarseggia, davvero contribuirà alla libertà senza snaturare se stessa.