Marcello Pera «Ora riforme condivise. Solo il
presidenzialismo garantisce stabilità»
L’ex presidente del Senato spiega la scelta di candidarsi con FdI. “Finalmente c’è la possibilità di cambiare la costituzione. Meloni sovranista? Vuole solo tutelare l’interesse nazionale”
di Nino Femiani
Marcello Pera, ex presidente del Senato. Lei manca dal Parlamento da nove anni. Che cosa le ha detto Giorgia Meloni per convincerla a tornare nella battaglia con FdI?
«Mi ha detto che questa sarebbe finalmente stata la legislatura della riforma della Costituzione e mi ha chiesto di dare una mano. È la mia aspirazione fin dal 1996».
Avrebbe voluto essere ricandidato a Lucca, invece è finito in Campania, suscitando un certo malumore tra gli esponenti locali. Le dà fastidio essere – come Franceschini, Camusso, Furlan, Salvini e altri – etichettato come un catapultato?
«Sono favorevole alla rappresentanza territoriale, che però non si può ottenere con questa legge elettorale. La catapulta è il sistema. La cosa importante per gli elettori di Lucca, come di Sassari o di Napoli è assicurare maggiore rappresentanza ai cittadini e ai territori. È quello che vogliamo fare con le riforme istituzionali che abbiamo in mente».
Si parla di lei come di un parlamentare che potrebbe assumere un incarico istituzionale: lei stesso ha riferito di preferire la presidenza di una commissione che si occupa di riforme istituzionali invece di un ministero. Qual è la riforma che ritiene necessaria e urgente? Le piace il presidenzialismo alla francese?
«No, non desidero la presidenza di una commissione e non mi interessano le cariche. Da soldato semplice voglio lavorare con tutti al presidenzialismo. L’elezione diretta del capo dell’esecutivo è una esigenza ormai diffusa, fra i cittadini e molte forze politiche non solo di centrodestra. Perché ha un doppio enorme vantaggio: la trasparenza (chi vince governa) e la stabilità politica, che in Italia non c’è mai stata. Ma mi lasci sottolineare un punto essenziale: questa riforma deve essere fatta con largo consenso».
Recentemente ha detto: la democrazia lentamente si riduce al governo di una piccola minoranza che, minimamente organizzata, vince la lotteria. Pensa che con la vittoria del centrodestra questo scenario cambierà e perché?
«Mi riferivo alle elezioni amministrative. Se vota solo il 40 per cento, come spesso accade, allora una famiglia allargata e un po’ organizzata che abbia il 21 per cento conquista da sola una città. A livello nazionale la scarsa affluenza provoca analoghe distorsioni. Se il centrodestra presenta programmi credibili e coinvolgenti, e riesce nella riforma costituzionale, può fare molto per superare questa erosione della democrazia».
Appare strano che un campione della liberaldemocrazia come lei sia candidato in un partito con tendenze sovraniste, fondamentalmente euroscettico e in economia abbastanza statalista. Come ha vinto queste differenze?
«Se non si usano le parole come clave, allora ci si può almeno intendere. Giorgia Meloni ha il merito di battersi affinché l’interesse nazionale dell’Italia sia tutelato in Europa non meno di quello della Germania e della Francia. Inoltre, vuole dare ai cittadini la possibilità di scegliere da chi essere governati, senza passare dai soliti giochi di palazzo. Lo vogliamo chiamare nazionalismo? Lo vogliamo definire sovranismo? A me pare solo buon senso e amore per l’Italia».
Meloni, una conservatrice: eppure a molti sembra provenire da una galassia estranea alle principali famiglie politiche continentali. È pregiudizio?
«Lo è, anche perché la sua presidenza del gruppo dei conservatori europei la legittima pienamente. Sarebbe come se io andassi a dire al Pd che, tempo fa, erano comunisti. Questa polemica non serve a nulla. I problemi sono davanti, nella politica, non dietro, nella storia».
Pensa che il diritto all’aborto abbia a che fare con le radici cristiane dell’Italia? Ritiene che vada limitato?
«Sul piano etico, individuale, l’aborto è un tema lacerante per un cristiano e le discussioni non finiranno mai. Detto questo, la legge 194 non è in discussione. Non ci saranno interventi sul diritto all’aborto. Ci saranno interventi per favorire la natalità con asili, sostegni economici, congedi. Dobbiamo superare l’inverno demografico che stiamo vivendo o scompariremo».
Toglierebbe la fiamma dal simbolo di FdI?
«È un argomento che non mi appassiona. Anche togliendola, si può star certi che a Sinistra troverebbero sempre qualcosa da ridire. Come per la denominazione di origine, quel che conta non è il marchio, ma la qualità del vino. A maggior ragione per un partito. Va fatto un ragionamento politico. Fratelli d’Italia sta crescendo molto, ampliando i consensi e aprendosi al contributo di nuove aree culturali e politiche. È fisiologico ragionare anche sulla possibilità di adottare una identità visiva più inclusiva e aperta. Allo stesso tempo, comprendo la sensibilità di chi vuole preservare il simbolo di una identità politica che con successo ha saputo attrarre adesioni ed evolversi».
Un’impertinenza: lei ha rotto con Forza Italia ritenendo che questo partito aveva perso lo spirito liberale. Ritiene di averlo ritrovato in Fratelli d’Italia?
«Non è impertinente, è una domanda ragionevole. Ma lo spirito liberalconservatore, in epoche diverse e in forme diverse, può soffiare su più partiti. Per fortuna della nostra coalizione che nel complesso appare coesa e coerentemente ispirata ai valori occidentali e liberali».
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