Interviste

Intervista su “Avvenire”

23 Giugno 2002

“Religioni in Europa: un modello italiano. Marcello Pera: il relativismo è un pensiero corrosivo”

di Dino Boffo

 

Presidente Pera, intorno al futuro dell’Europa c’è una mobilitazione di energie, di intelletti, di personalità. Eppure tutto sommato facciamo fatica a coinvolgere in questo passaggio epocale l’opinione pubblica. La cosa la preoccupa?

Sì. Non a caso il problema è stato posto sia a Nizza sia a Laeken e uno degli impegni a cui sono chiamati i Paesi della Ue e i Parlamenti nazionali è appunto quello di coinvolgere il più possibile l’opinione pubblica continentale. È una cosa obiettivamente complicata, perché questo coinvolgimento di solito avviene mediante i partiti politici. Se l’Europa fosse “luogo” di contesa politica, l’interesse verrebbe da sé. Ma così non è. Mi pare poi che non ci sia neanche troppa informazione sui lavori della Convenzione e dunque sulla costruzione della nuova Europa e delle sue Istituzioni. Di recente a Madrid, nella Conferenza dei presidenti dei Parlamenti europei, abbiamo tutti quanti denunciato ‘ per usare quello che ormai è diventato un luogo comune ‘ il «deficit di democrazia» che ne deriva. Insomma, ne convengo, il problema esiste.

 

Insieme al presidente del Bundestag tedesco, ha lanciato anche una precisa proposta…

Mi sono fatto promotore, in sede di Conferenza dei presidenti dei Parlamenti europei, dell’idea ‘ che è passata ‘ di portare nei Parlamenti nazionali il testo che sarà licenziato dalla Convenzione europea, cioè la bozza della Costituzione. E questo prima che il testo vada, secondo la procedura prevista, all’esame della Conferenza intergovernativa. Insisto su questo punto, proprio perché mi attendo che la discussione sulla bozza di Costituzione sia più partecipata, più responsabile, più coinvolgente per parlamentari, partiti e cittadini.

 

Dal sondaggio Abacus-Avvenire reso pubblico lunedì scorso (vedere l’edizione diemerge che i cittadini quando pensano alla Ue la associano a problemi concretissimi: da quello della sicurezza a quello dell’occupazione. Lei lo interpreterebbe come una sorta di “fuga” verso un’autorità superiore allo Stato o come una domanda di concretezza?

La metterei in positivo. Gli italiani, ma anche altri cittadini europei, hanno la viva percezione del fatto che certi problemi che toccano direttamente la vita delle nostre società ‘ immigrazione, sicurezza, politica estera, lavoro e così via ‘ hanno ormai una dimensione tale da dover essere affrontati a un livello non solo nazionale. E questo è davvero importante. Ci vedo una sfida alla Convenzione europea a delineare Istituzioni comuni che possano essere individuate in modo immediato e trasparente come responsabili della risposta alle concrete attese dei cittadini.

 

La cronaca continua però a consegnarci l’immagine di una Ue che trova sempre nuovi intoppi su questa strada. Come quello registrato, in vista del vertice di Siviglia, a causa delle divisioni tra Stati membri sui modi per fronteggiare l’immane problema dell’immigrazione clandestina.

Sì, è il secondo intoppo clamoroso degli ultimi tempi, che segue quello ‘ risolto in una qualche maniera ‘ della “sistemazione” all’interno della Ue dei tredici militanti palestinesi accusati di terrorismo da Israele e che si erano rifugiati nella basilica della Natività a Betlemme. Nel fatto che il nodo-immigrazione sia finito sul tavolo del vertice di Siviglia credo che, però, si possa scorgere anche un segnale interessante: se una soluzione deve maturare a livello di capi di Stati e di Governo dei Quindici vuol dire che, per certi problemi, la istituzione deputata a dare risposte è un organismo politico al massimo della responsabilità.

 

La sfida va affrontata con equilibrio…

E io mi auguro che non prevalgano mai approcci ideologici alla questione. C’è un dovere di umanità da parte degli europei, ma c’è anche un diritto dei cittadini europei alla legalità e alla sicurezza. Il bilanciamento tra queste due esigenze è necessario.

 

Proprio per questo, presidente, andrebbe accuratamente evitato di mettere con le spalle al muro i Paesi nei quali si originano le correnti di immigrazione clandestina. È stato un errore minacciare di tagliare ogni aiuto ai Paesi che non s’impegnano a fermare “a ogni costo”, anche sparando, coloro che fuggono verso l’Europa.

È vero. Detta così, la cosa è inaccettabile. Ma, insisto, un compromesso tra senso d’umanità ed esigenze di sicurezza deve essere mantenuto. Cito il caso dell’Albania. Da quando l’Italia è presente in quell’area con forze di pace e con aiuti di varia natura la situazione è migliorata. Questo significa che c’è un legame tra l’aiuto che gli europei possono dare ai Paesi vicini e l’immigrazione clandestina che da quei Paesi, o attraverso di essi, proviene. Ecco perché, oltre al giusto rigore, invoco un po’ di sano pragmatismo.

 

Nel cantiere europeo, accanto e insieme ai problemi concreti ce ne sono altri di natura più culturale. Tra i più importanti c’è quello relativo al contributo che le religioni hanno dato all’Europa e ancora daranno al suo futuro.

È il famoso problema dell’«eccetera» lasciatoci in eredità dalla Conferenza di Nizza… Al di là della battuta, ritengo che a differenza di quanto finora accaduto a livello Ue dobbiamo prendere atto, con consapevolezza e anche con orgoglio, delle radici cristiane dell’Europa. Che non sono le uniche, ma sono assolutamente importanti. Io uso dire che l’Europa ha due grandi genitori. La tradizione cristiana, che ci ha consegnato il concetto di persona, cioè dell’individuo che in quanto tale, prima ancora di essere cittadino, è portatore di dignità e di diritti. E la tradizione greco-romana che ha messo sul mercato delle idee del mondo il concetto di istituzioni e quello dei diritti pubblici. Insomma, possiamo essere fieri dei nostri Parlamenti perché ci sono stati degli antenati greci che se li sono inventati, cosi come si sono inventati i tribunali. Ed è grazie al cristianesimo se possiamo andare orgogliosi della nostra cultura del rispetto della persona umana e della tolleranza. Sarebbe miope costruire l’Europa dimenticando di chi siamo figli.

 

Insomma…

Insomma, io ‘ che sono un laico ‘ sono rimasto sorpreso da questa “riduzione a eccetera” di uno dei miei genitori. La tradizione cristiana è ben più di un eccetera: è la condizione del fatto che noi siamo qui, oggi, con questi nostri valori. Altrimenti saremmo altro e in un altro luogo.

 

Le religioni oggi chiedono che l’Europa le valuti per quelle che sono: presenze culturalmente significative, custodi attive di un memoria e di un’identità condivise e non solo “riserve etiche”. Lei crede che su questo la Carta della Ue possa pronunciarsi riconoscendo alle religioni un profilo “strutturato”?

Devo dire che così come mi sono sorpreso per il cristianesimo ridotto a eccetera, mi sono stupito per il dibattito sull’uso o meno del nome di Dio nella Carta. Non credo che si risolva il problema del riconoscimento delle radici cristiane dell’Europa menzionando il nome di Dio e dandosi poi, magari, la licenza di contraddire quel nome. Vorrei vedere invece i valori del cristianesimo, delle nostre religioni o, se si vuole, delle nostre religiosità, scritti in questo o quel diritto, in questo o quel principio della Carta. Se ad esempio, si deve tutelare, com’è giusto, la famiglia non penso che servano preamboli nominalistici.

 

D’accordo nel non impantanarsi in questioni solo nominalistiche. E tuttavia la questione dell’inclusione del nome di Dio è proposta come garanzia e nutrimento dei valori a cui lei fa riferimento. Avevamo, però, sollevato un altro problema…

Già, quello del confinamento della religione in una sorta di “riserva etica”. So che è un punto che divide i credenti dai laici. Per un laico la dimensione religiosa è infatti propria della coscienza. E su questo insisterei. Tra le conquiste che l’Europa ha fatto c’è quella della laicità delle Istituzioni.

 

Ma la questione, presidente, non è certo quella di vestire religiosamente le Istituzioni europee. Il problema è che è accaduto e accade che rappresentanti del mondo cristiano vengano trattati in sede Ue alla stregua di portavoci di “sette noiose”. Non crede che un qualche riconoscimento giuridico nella Carta s’imponga?

Rispondo con un’altra domanda: si chiede un riconoscimento più forte di quello che è garantito nella Costituzione italiana? A me parrebbe che in quella misura sia del tutto adeguato.

 

E’ un’indicazione importante.

Così come sono importanti le preoccupazioni di credenti e non credenti per i malanni dell’Occidente. Penso, in particolare, che il Papa sia seriamente preoccupato da malanni che in larga misura sono tali anche per me, laico: il disincanto, la desacralizzazione, il relativismo. Un male quest’ultimo che rende gli individui scarsamente consapevoli di ciò che hanno conquistato. Considero il “pensiero debole” un veleno corrosivo.

 

Parole forti, presidente.

Voglio essere chiaro: per me non esistono verità assolute e trascendenti, ma non è vero che tutte le posizioni e proposizioni sono uguali. Racconto un episodio a cui tengo molto e di cui sarò sempre grato al Papa. Qualche tempo fa ho infatti avuto una breve, ma interessantissima, conversazione con Giovanni Paolo II. Ricordo di avergli detto: “Santità, io sono un laico, ma questa questione del relativismo su cui lei insiste parecchio concerne anche me. Specialmente in un momento in cui vedo l’Occidente minacciato e non lo trovo consapevole e fiero delle proprie conquiste”. Ecco, constato che si è andato diffondendo negli ultimi cinquant’anni un pensiero che insiste sempre sui soliti tasti: non ci sono fondamenti, non ci sono più dimostrazioni, non ci sono verità superiori ad altre. E così tutti, laici e credenti, abbiamo perso il gusto della “giustificazione” del vero e del falso, del buono e del cattivo del giusto e dell’ingiusto. Non mi piace generalizzare, ma vedo una pericolosa timidezza verso la verità. Bisogna uscirne

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