14 Dicembre 2008
di Marina Valensise
Colloquio con Marcello Pera, il filosofo liberale che ha suscitato l’entusiasmo di Benedetto XVI
Il primo a mostrare stupore è proprio lui, Marcello Pera, il senatore epistemologo che ritornato ai suoi studi ha pubblicato un libro dove attacca laicisti e clericali con una rilettura del liberalismo nella sua essenza cristiana. “Davvero non me l’aspettavo” dice con candore nelle ampie stanze del suo ufficio a Palazzo Giustiniani. Pensa, naturalmente, alla lettera di Benedetto XVI che figura in testa al saggio “Perchè dobbiamo dirci cristiani”, appena uscito da Mondadori. “Con una conoscenza stupenda delle fonti e con una logica cogente scrive il Papa Ella analizza l’essenza del liberalismo a partire dai suoi fondamenti, mostrando che all’essenza del liberalismo appartiene il suo radicamento nell’immagine cristiana di Dio: la sua relazione con Dio di cui l’uomo è l’immagine e da cui abbiamo ricevuto il dono della libertà”.
Marcello Pera è un tipo schivo, ma sembra emozionarsi quando ricorda la sorpresa che lo colse ai primi di settembre, alla vigilia del suo 40�º anniversario di matrimonio, il giorno in cui da Castel Gandolfo ricevette la lettera del Papa. E’ un uomo abituato ai cambi di prospettiva: lucchese, bizantino solo di nome (da pronunciarsi con la e aperta, che in greco antico significa “limite”, “confine”, ed è lo stesso dato al quartiere genovese di Costantinopoli), ma senza ascendenze, “mio padre” dice “era un semlice manovale”, Marcello Pera ha iniziato a lavorare come ragioniere in banca, per finire sulla cattedra di Filosofia della scienza all’Università di Pisa, dopo dieci anni alla Camera di commercio; eletto nelle liste di Forza Italia al Senato, dopo pochi anni ne è diventato il presidente. Infine, lasciato Palazzo Madama, si è rimesso a studiare “per salvarsi l’anima”, dice lui, e si capisce che dal mondo delle idee ha attinto la forza per superare la delusione politica.
Ma la sua riflessione sul liberalismo cristiano nasce da un trauma: “L’11 settembre l’interpretai come un attacco non solo terroristico, ma contro la nostra civiltà. Era naturale per me interrogarmi sui valori, il fondamento e il senso stesso di una civiltà che si batte il petto, chiede scusa, non ama affermare la sua identità, e cerca anzi di integrare elementi alieni, come i romani facevano coi barbari”. Da elettrone libero della politica italiana, passato dalla scienza della logica alla seconda carica dello stato, e poi da lí di nuovo alla filosofia, Pera non nasconde il travaglio che ha accompagnato questo libro, su cui si dice lavorasse di notte proprio nei giorni in cui Silvio Berlusconi stava formando il nuovo governo, e prospettava per lui il ministero della Giustizia. “Mi è costato tanta fatica. Non è un pamphlet, ma un libro di studio, anzi il mio contributo alla politica: un esame di coscienza senza il quale rischiamo di cedere al laicismo trionfante o soccombere al rischio opposto del clericalismo”. L’altro rischio, ancora più subdolo per un liberale come lui, cresciuto alla scuola di Karl Popper e della società aperta, era l’esposizione personale: “Si è convertito o no? Altra domanda morbosa in cui scade questo argomento in Italia” commenta il senatore. “E invece i temi di cui tratto vanno ben al di là della conversione” aggiunge Pera che nel suo libro distingue accuratamente tra il “credere in” e “il credere che”, ossia tra i cristiani per fede e i cristiani di cultura.
Il Papa, che del suo saggio è stato non solo il primo destinatario e il primo lettore, ma il fondamentale ispiratore e un fermo incoraggiatore, ne ha fatto un elogio senza riserve: “Con una logica inconfutabile”, scrive Benedetto XVI nella sua lettera a Pera, “Ella fa vedere che il liberalismo perde la sua base e distrugge se stesso se abbandona questo suo fondamento”. E infatti al cuore di questo studio altamente ratzingeriano c’è il rapporto tra il liberalismo e la religione cristiana. Alle radici della cultura laica liberale, questa la tesi di Pera, c’è la persona umana; dunque non può esserci libertà dell’individuo senza un rapporto col Dio cristiano, e senza un’idea di bene e una consapevolezza del dono ricevuto dall’uomo, creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio.
E’ un ritorno ai primordi del liberalismo moderno, quando i Padri Pellegrini traversavano l’Atlantico con i trattati di John Locke in una mano e la Bibbia nell’altra? “Il fatto è che senza verità non può esserci libertà” risponde Pera. “La libertà senza verità scade, diventando uno stato contingente e aleatorio, perchè si perde il suo stesso fondamento, la sua giustificazione, la sua base etica, metafisica, religiosa”. Eppure i pensatori contemporanei e postmoderni, come John Rawls, rifiutano qualsiasi fondamento, sostengono che il liberalismo è autosufficiente, basta a se stesso, non ha bisogno di alcuna dottrina anteriore per giustificarsi; e per superare la difficoltà un antirelativista come J�rgen Habermas è disposto a qualsiasi acrobazia argomentativa, anche a costo di contraddirsi, come lei spiega nel suo libro. “Habermas pensa in termini di razionalità normativa. Rawls pensa solo in termini di procedura. Ma in questo modo la libertà si corrode. Decade a relazioni e procedure, cosí come la democrazia, che ha un fondamento etico nell’eguaglianza di tutti davanti alla legge, corrode se stessa quando decade a semplice macchina per le votazioni, perchè mina il suo stesso principio. L’aveva capito benissimo Platone che nella Repubblica’ parla di una libertà autofagica, che mangia se stessa, proprio come succede alla democrazia relativistica che, priva di religione, diventa religione a se stessa. E infatti, se non c’è più la verità, ma solo la somma di tante credenze separate, se non esiste più una legge morale comune a tutti, ma solo le tradizioni dei singoli gruppi, il bene morale può essere messo ai voti, e saranno le maggioranze parlamentari a decidere cosa è bene e giusto. Il nomos dunque crea la physis, la legge stabilisce la natura. E’ questo il paradosso che stravolge il liberalismo procedurale; se siamo liberi di votare e per di più relativisti non resta più niente di sacro, di non negoziabile, persino i valori sono costruiti dalla maggioranza in Parlamento”.
Pera critica la degenerazione del moderno citando la “Repubblica” di Platone: fatto strano per un seguace del liberale Karl Popper che vedeva nel filosofo ateniese il nemico della società aperta: “Condivido l’analisi, non la ricetta, l’autofagia della libertà, non il governo dei filosofi” si schermisce Pera, preoccupato dai tempi correnti: “E’ esattamente la stessa cosa che sta accadendo in Europa, certo, ma in America è diverso: lí c’è stato un popolo di pellegrini, scampato alle persecuzioni religiose per costruire la “City upon the Hill” come un redivivo popolo eletto di cui parla la Bibbia. Poi c’è stata l’opera meravigliosa di John Adams e Thomas Jefferson, che hanno razionalizzato la religione facendone una costituzione civile. L’elemento religioso comune è diventato un abito civile più forte della legge positiva, proprio perchè vissuto come abito. Risultato? L’esperienza costituzionale americana dura da duecent’anni e non ha prodotto alcuna dittatura; mentre noi europei, che quell’abito l’abbiamo perduto, abbiamo avuto sistemi autoritari: Robespierre e il giacobinismo, Lenin, Stalin e il comunismo, Hitler e il nazismo. La patria del cristianesimo ha prodotto la peggiore negazione della libertà quando la modernità si è invaghita dell’idea che l’uomo basta a se stesso, si costruisce da solo, senza verità rivelata”.
La vera frattura, dunque, per Pera è la Rivoluzione francese. L’idea di un mondo in balía degli eccessi anticristiani perchè abbandonato a se stesso e in balía della ragione astratta dei diritti dell’uomo, come scriveva Edmund Burke. “Sí, ma attenzione. Nella dichiarazione del 1789 c’è ancora un residuo religioso di libertà cristiana: infatti sono diritti riconosciuti dallo stato, che pertengono agli individui come persone umane, prima ancora che come citoyens. Da lí, poi, per ragioni storiche legate al potere temporale dei papi, nasce la polemica contro la chiesa e il cristianesimo: l’anticlericalismo si salda alla decristianizzazione, col risultato che i laici oggi finiscono per cadere in un’apostasia del cristianesimo scambiato con la fisionomia di un’ex potenza terrena”.
Dunque il laicismo a oltranza che molti continuano a professare sarebbe un anacronismo? “L’anticlericalismo, più che una malattia, fu uno stato di necessità dell’Ottocento” dice Pera. “In Europa gli stati nazionali si costruirono contro la volontà della chiesa. L’anticlericalismo fu uno strumento di difesa contro il potere temporale della chiesa. Solo che ora è degenerato in qualcosa che non va contro una politica temporalistica vaticana, ma contro lo stesso cristianesimo. Quante volte mi son sentito dire, lei rivaluta il cristianesimo, però dimentica che la chiesa era contro il Risorgimento, non ha ostacolato Hitler ma allora, dico io, guardiamo anche al ruolo positivo della chiesa masse di analfabeti istruiti, educati alla politica grazie alla chiesa”.
Eppure oggi, a seguire da laici la missione pastorale della chiesa non si rischia di impegnarsi in una battaglia disperata? Fondare la difesa del liberalismo sulla verità rivelata non è un’impresa vana in un mondo votato all’ateismo di massa? Pera risponde con l’esempio del “Non possiamo non dirci cristiani” di Benedetto Croce: “Il Croce del 1942 viveva la peggiore tragedia d’Europa, una guerra civile intestina. Di fronte al precipizio capí che solo Dio ci può salvare. Ma a differenza di Martin Heidegger che pensava al Dio pagano, Croce, da autentico liberale, sia pure di tipo hegeliano, cercò la salvezza nel cristianesimo. Prendendo questa posizione nel pieno crollo della civiltà europea, Croce apre una terribile contraddizione nel suo sistema filosofico, dove non c’è posto per la religione. Io oggi mi trovo in una situazione analoga. Vivo la crisi etica, civile e morale della civiltà europea con disagio, in uno stato d’animo di disperazione. Mi conforta il fatto che l’America resista ancora e l’altro elemento di conforto per me è Benedetto XVI, ciò che egli dice e le reazioni di crescente popolarità che provoca il suo dire. Sono convinto che il Papa sia consapevole del fardello che ha sulle spalle, la riforma morale dell’Europa, e il suo indefettibile dire non deflette di fronte alla missione che la storia gli ha affidato: penetrare nelle coscienze dei laici, sino al punto da metterli in difficoltà, come dimostrano quelli che cercano di non prestargli ascolto, rifiutandosi persino di farlo parlare, come i professori della Sapienza. E’ un Papa che divide le coscienze, ma in fondo se la libertà dipende dalla verità è giusto che sia cosí”.
Non è paradossale che duecent’anni dopo la rivoluzione anticristiana sia proprio il capo della chiesa cattolica, l’apostolo della tradizione evangelica, a dover salvare l’Europa dal nichilismo relativistico? “Il suo è un compito gravoso, ma lui ci sta riuscendo. Sta diventando un Papa popolare, ascoltato dal mondo laico che, sfidato, è costretto a rispondergli e corrispondere. Benedetto XVI non è un Papa che ti chiede di convertirti o pregare, ma di pensare i fondamenti stessi del tuo essere laico, di capire cosa significhi essere laico”. Eppure, rispetto al liberale Croce che nella crisi della Seconda guerra mondiale proclamava “Non possiamo non dirci cristiani”, il liberale Pera che dichiara “Dobbiamo dirci cristiani” sembra avere la posizione più debole: anzichè la reazione spontanea davanti alla datità, la sua non è una scelta volontaria e intenzionale, e dunque più aleatoria, quasi fosse l’ultima ratio per evitare la catastrofe? “Tra me e Croce non c’è alcun cambiamento” risponde Pera. “Io condivido l’elogio del cristianesimo fatto da Croce, e nel mio libro spiego perchè usa una formula riduttiva. Croce è un filosofo idealista il quale pensa che la libertà come spirito assoluto si svolga da sè nella storia, anche nei periodi bui e sotto i regimi che non ammettono la libertà politica. Per me invece, che sono un liberale alla Locke e alla Kant, il liberalismo ha a che fare con libertà concrete. Anche per Croce senza cristianesimo non c’è liberalismo; solo che lui vede nel cristianesimo una fase storica, un momento della libertà che evolve, e ammette che un giorno potrebbe essere superata. Viceversa, io àncoro il liberalismo al cristianesimo storico, legando concettualmente i due fenomeni”. In fondo, anche i romantici dopo la rivoluzione francese “I romantici”, incalza subito Pera, “fanno ciò che oggi fanno i relativisti. Non esiste l’uomo in assoluto, non esiste la famiglia umana, ma solo i popoli e le nazioni. Non ci sono diritti in assoluto, legati alle persone, come pensavano Locke, Kant e Tocqueville. Esistono solo i diritti dei popoli e degli stati contro l’universalismo. Il liberalismo è una filosofia senza frontiere, perchè la persona umana non ha frontiere. Oggi col multiculturalismo i diritti si stanno rinsecchendo entro i loro ambiti territoriali, occidente, America, islam Stiamo perdendo il senso universale, per dirla col termine laico, o ecumenico, per usare la parola cristiana. In questo senso, il liberalismo nasce congenere rispetto al cristianesimo: per entrambi, infatti, c’è solo la famiglia umana, composta da persone portatrici di diritti naturali e inalienabili. Herder, Hamann e i romantici rimproverano il liberalismo universalista di etnocentrismo. Ma il liberalismo crede nella libertà, assegna ad essa un significato religioso, e l’esporta, per questo è cosmopolita e chiede sempre le carte internazionali. I suoi nemici sono i nazionalisti. Kant vide sgretolarsi le idee universali della sua filosofia e del liberalismo cosmopolita. E oggi il dramma si ripete”.
Infatti, i romantici diventati relativisti criticano la pretesa universalità della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, sostenendo che l’individualismo liberale non può essere condiviso dal mondo islamico o dalla Cina confuciana. “In quella dichiarazione gli individui hanno diritti non in quanto cittadini, bensí come membri del consorzio umano. La dichiarazione di indipendenza americana rappresenta, in questo senso, un’espansione della civiltà cristiana che ha vinto e si è allargata sino a coprire paesi che non appartenevano a quella tradizione. Obiettare che siano valori particolari al liberalismo occidentale è come dire che la legge di inerzia di Galilei, siccome è stata scoperta tra Padova e Firenze non può valere per tutto il mondo. Ma il liberalismo dà alla dignità umana lo stesso valore universale che le scoperte scientifiche danno alla realtà della natura. E le carte internazionali servono a esportarlo in zone estranee alla tradizione cristiana, che affonda le radici nel Vangelo e nella Bibbia”.
Ma allora come affrontare l’integrazione del diverso? “I relativisti assolutizzano la cultura in cui si trovano a pensare e le costruzioni sociali che ne sono il prodotto, mentre il liberalismo rende assoluta la natura umana. Ora, se ogni natura costruita come cultura vale quanto l’altra, non c’è ragione di integrare alcunchè. Si integra solo se si presuppone un’essenza che tutti devono riconoscere, altrimenti c’è solo coesistenza tra diversi, aggregazione tra molteplici. Se il multiculturalismo non integra, ma produce ghetti, cioè l’esatto contrario di quello che si prefiggeva, l’errore sta nella filosofia prima che nelle policies. Puoi anche tollerare un tribunale ebraico, se applica principi non molto diversi dai tuoi. Ma se ammetti un tribunale islamico che applica la sharia, ti trovi nel paradosso di dover distruggere la tua società. La tolleranza a questo punto non vale più”.