I patti sul governo vanno rispettati
di Mario Sechi
Il Giornale, 18 luglio 2004
E’ il richiamo all’etica della responsabilità e al rispetto del patto con gli elettori, quello che Marcello Pera, presidente del Senato, lancia in questa intervista. L’appuntamento è a Palazzo Giustiniani per le 10.30, Roma è già accaldata e sembra non curarsi dell’infinita verifica e della crisi strisciante del governo, ma nella sala della Costituzione, intrisa di storia, fra le boiseries, i testi sacri della nostra Carta, si respira ancora quel clima che fu dei padri fondatori. «Pacta sunt servanda» dice Pera, quasi sospirando. La seconda carica dello Stato invoca «la modernizzazione come necessità del Paese» e spiega le ragioni «per cui i partiti della Casa delle libertà devono rilanciare il loro progetto di cambiamento». Questi tormentati ultimi giorni non gli sono piaciuti. Ha visto spettacoli da prima Repubblica, ha sentito riemergere voglie antiche di proporzionale, più che un 25 luglio teme un 8 settembre.Signor Presidente, è finita la crisi?«No, si è trovata una soluzione, non si è trovata “la” soluzione».Almeno è una buona soluzione?«Sì, è buona. Siniscalco è uno studioso serio, un tecnico stimato e un competente conosciuto e apprezzato in Italia e all’estero. Dove era Tremonti, che lo chiamò con sé al ministero, era lui. Io lo stimo molto».Allora perché non è la soluzione?«Non lo è perché, a meno di credere che le dimissioni di Tremonti siano state chieste perché era antipatico a qualcuno, non sono stati risolti quei problemi politici che hanno causato le dimissioni e che sono continuati anche dopo l’uscita di Tremonti. Ho sentito un via libera a Siniscalco, ma non ho sentito né il suo programma né una dichiarazione di condivisione di quel programma da parte della coalizione. Naturalmente, immagino che il programma di Siniscalco sia lo stesso del presidente del Consiglio, cioè tagli di spesa e diminuzione delle tasse. Ma gli alleati non lo hanno detto. Si vedrà alla prova».Ma almeno i cittadini possono tirare un sospiro di sollievo, perché la verifica si è chiusa e la crisi di governo evitata.«Questo è vero. Immagino però che i cittadini, che a milioni sono già in vacanza, siano un po’ sconcertati. Forse non ci hanno capito granché. O forse ci hanno capito tutto, almeno quelli un po’ più anziani, che hanno temuto di rivivere quelle vecchie estati di una volta, quando Ferragosto calmava tutto e San Rocco, il giorno dopo, scrosciava dappertutto».Non capisco la metafora.«Lei è giovane e perciò non si ricorda quando, alla vigilia dell’estate, uno spostamento elettorale da zero-virgola nel partito centrale della coalizione o in qualche satellite della coalizione, metteva in difficoltà il governo di turno, dava inizio al rituale canonico, celebrava le liturgie consolidate, e poi, a due passi dal pericolo, ci si accorgeva che intanto si era fatto agosto, e si rinviava tutto. Io me lo ricordo, e francamente avrei voluto non ricordarlo più. Pensavo che l'”eterno ritorno” non fosse possibile. E invece, come in un vecchio documentario in bianco e nero, mi è toccato di rivedere tutto».Vuol dire anche lei che la seconda Repubblica è uguale alla prima?«Be’, intanto alcuni interpreti sono gli stessi, anche se prima erano giovani promesse e ora sono star nazionali. E poi anche la sceneggiatura mi sembra che sia rimasta la stessa. Compreso il linguaggio a doppio fondo: si parla di “scosse”, “programmi”, “collegialità”, e si intende entrata e uscita di ministri, spostamento o avanzamento di sottosegretari, nomine Rai, consigli di amministrazione, eccetera. Il film era brutto vent’anni fa, s’immagini adesso».Siamo tornati alle origini?«Non esattamente. Siamo tornati al bivio di dieci anni fa, all’inizio della seconda Repubblica, quando Berlusconi da solo inventò un partito, creò il bipolarismo, frenò la deriva inerziale, vinse le elezioni e formò un governo. Il bivio, allora come ora, è tra restaurazione e modernizzazione. La restaurazione è la politica delle “mani libere”, quando i partiti, presi i voti nelle urne, in Parlamento fanno poi ciò che non hanno detto. La modernizzazione è invece la politica del “contratto con gli italiani”, quando un leader, a nome di una coalizione, deve promettere e, diventato premier, deve mantenere. La restaurazione è rimettere assieme i cocci dei partiti, la modernizzazione è invece avviare un nuovo sistema politico. Nel 1994 vinse la modernizzazione. Oggi il processo si è inceppato».Perché?«Perché la modernizzazione non è stata perseguita con determinazione. Forse qualcuno la predicava ma non ci credeva. Come prima, del resto, quando, ad esempio, in campagna elettorale uno diceva “promettiamo la diga” e poi non piantava neppure un recinto, oppure diceva “faremo il risanamento” e poi giù spese a gogò nelle finanziare approvate di notte nelle commissioni bilancio».Quando parla di modernizzazione a che cosa si riferisce in particolare?«Alle riforme della Costituzione centralista e consociativa, dei regolamenti parlamentari paralizzanti, della pubblica amministrazione tardigrada, del sistema economico ancora troppo pubblico o pubblico-dipendente, dell’organizzazione giudiziaria inefficiente, del mercato del lavoro rigido, dello stato sociale pesante, del sistema pensionistico iniquo e insostenibile, dell’Università impiegatizzata. Tutte quelle cose, insomma, che fecero trovare l’Italia in ritardo quando crollò il muro, l’Europa fece il viso delle armi e la globalizzazione ci scoprì i fianchi. L’Italia era in grave ritardo anche prima dell’89, naturalmente, ma nessuno ci badava seriamente, perché tanto una svalutazione competitiva della lira oggi, un buco di bilancio domani, una protezione – soprattutto americana – il giorno dopo rimediavano a tutto. Oggi queste belle pensate non si possono più avere e ci tocca di fare da soli. La modernizzazione, prima che una sfida, è una necessità. O si diventa moderni o non c’è sbuffo di zerovirgola che tenga: si resta al palo».Vuol dire che non si è fatto niente?«Si è fatto parecchio. Intanto una politica estera finalmente non più oscillante che ci ha dato prestigio e anche benefici economici. Poi una politica militare. Ci costano, naturalmente, più di diecimila uomini all’estero in operazioni di ricostruzione o sicurezza in tanti Paesi, ma abbiamo dato valore al nostro Esercito e tutelato interessi nazionali. Poi la politica della sicurezza che ci protegge assai di più dalle scorribande. Quindi le riforme del lavoro, della scuola, dell’università e ricerca. Un buon bottino».Di che si lamenta allora?«Del rischio che stiamo correndo di tornare indietro. Invece, bisogna andare avanti. Dopotutto, lo impone l’etica della responsabilità politica: i patti si devono rispettare. E chi rompe paga e i cocci sono suoi».Come si fa ad andare avanti?«Intanto, si comincia col dotarsi di un sistema istituzionale adeguato all’etica della responsabilità, il che vuol dire no al proporzionale, soprattutto, dio ci liberi, no al proporzionale senza due poteri fondamentali del premier: assumere e licenziare i ministri, sciogliere il Parlamento in caso di crisi. E sì al bipolarismo, sì alla democrazia immediata, per cui stamani si vota e stasera c’è un premier che comincia a governare per cinque anni. E sì, ovviamente, anche al federalismo».C’è chi lo vuole correggere o fermare. Non solo nei partiti, ma anche in Confindustria.«L’ho visto anch’io. Ma intanto fermarlo non si può: il treno è già partito dalla scorsa legislatura. E correggerlo significa non tanto correggere la devoluzione legislativa alle regioni, quanto modificare, come ho avuto più volte modo di dire, il pasticcio del Senato federale. Così come è stato disegnato per il momento è un’istituzione di blocco per qualunque governo e per di più non è federale abbastanza, perché non contiene né i presidenti delle regioni né i rappresentanti delle autonomie locali. Ho portato a conoscenza di tutti il risultato di un lavoro dell’Ufficio studi del Senato da cui risulta una situazione drammatica. In tre anni di legislatura per oltre duecento volte leggi del Parlamento o delle regioni sono finite alla Corte costituzionale. Ciò significa: il Parlamento o le regioni hanno deciso duecento volte, per altrettante volte il Presidente della Repubblica o chi per lui ha promulgato, la Gazzetta ufficiale ha pubblicato, le regioni o il governo hanno sollevato conflitto, e la Corte ha deciso. Il condono è una legge o no? La legge obiettivo, le finanziarie, le disposizioni sull’energia, eccetera, sono leggi o no? Boh? Lei capisce i costi in termini di certezza dei diritti e i costi economici? Perché nessuno, dico nessuno, ripeto nessuno, se n’è mai curato seriamente? Non è un’esigenza del sistema istituzionale? non è un interesse delle forze politiche, di destra o di sinistra, che si alternano al governo? non è un vantaggio per il sistema economico?».Ma la stessa Lega si oppone alla correzione.«No, la Lega si oppone alla restrizione della macrodevoluzione concessa dal centrosinistra e della microdevoluzione promessa dal centrodestra. Sul resto della riforma costituzionale, la Lega fin qui ha esercitato equilibrio e moderazione. Speriamo che, minacciando la crisi, la Lega ora non faccia proprio ciò che altri volevano che facesse».Cioè?«Che la Lega si sfili e tolga la spina».Presidente, dica la verità: lei chiede di andare avanti, ma teme un 25 luglio.«Temo di più l’8 settembre, perché se si sciolgono le fila e si va tutti a casa, ciascuno si arrabatterà come meglio crede e può, ma l’Italia perderà altro tempo e altre occasioni di modernizzazione. I problemi resteranno e sarà più duro risolverli. Meglio tirare avanti il carro, anche se costa fatica, perché le misure da prendere sono promettenti ma tutt’altro che indolori. Bisogna dirla la verità agli italiani: tagliare le spese, abbassare le tasse, rilanciare l’economia, si può e si deve, ma occorrono sacrifici. La stagione delle clientele, dei sussidi a fondo perduto, delle concertazioni a carico dello Stato sociale parasovietico, è finita da un pezzo».Sarà finita quella stagione, ma i poteri forti restano in campo e più che il cambiamento e le riforme spesso sembrano auspicare – e appoggiare – la spallata alla maggioranza.«Quando i pensieri sono deboli, i poteri sono forti. Se la politica rifugge dal bipolarismo, dalla propria responsabilità, dalle scelte, le decisioni vengono prese da altri. In altre sedi. Se però si giudica il loro stato di salute, questi poteri appaiono abbastanza forti per interdire, ma non tanto da poter assicurare il governo. La mia impressione è che in quelle sedi, tutto questo inizia ad avere una consapevolezza diffusa. La modernizzazione è una necessità per gli imprenditori. E allora, io mi auguro che chi è consapevole non si sottragga alla propria responsabilità».Responsabilità significa anche verità. Chi può farla questa opera di verità?«Devono farla tutti. In particolare, il presidente del Consiglio, che ha messo in gioco la sua carriera politica, e i partiti della Casa della libertà, se non vogliono rimangiarsi la parola data agli elettori. Qui un ruolo fondamentale deve giocarlo Forza Italia, che ormai è svezzata e matura. Era il partito della modernizzazione, deve esserne protagonista e pungolo. È stato un errore averlo lasciato a sé, appiattito sul governo, svuotato di dirigenti, con poca o nessuna autonomia. Se la riprenda, Forza Italia, la propria consapevolezza, non si pianga addosso, non si lasci dividere o piegare. Riportare più del 20% nelle elezioni di medio termine non è una catastrofe, è un successo. Si guardi attorno, Forza Italia: c’è un sacco di gente che le chiede di fare qualcosa, quasi sempre le stesse cose. Ci sono ancora socialisti, la Giovane Italia, liberali, radicali, repubblicani, e tanti altri lasciati sciolti ma che ancora vogliono lavorare».Non penserà anche lei ad un polo laico?«Per carità! Chi l’avesse in mente, e purtroppo ho visto che qualche tic è rispuntato, ragionerebbe come una volta. A che servono altri partitelli da zerovirgola al tempo del bipolarismo? A strappare un sottosegretario o un sottogoverno? No, se queste forze della modernizzazione vogliono contare davvero e non semplicemente contarsi è a Forza Italia che devono guardare. Chiedano, bussino, sfondino le porte se è il caso. Ma si uniscano al progetto».Proprio lei che nell’ultimo periodo ha mostrato attenzione ai valori e alle istanze della Chiesa, oggi non parla dei cattolici.«È vero, ma non è perché io, laico, in questi ultimi tempi sono stato dipinto con la tonaca, quanto perché la distinzione politica fra laici e cattolici è per me superata da un bel pezzo. L’equazione cattolici=moderati=centristi è morta, perché è morta la storia che la produsse. La modernizzazione non è né laica né cattolica. E non equivale, lo dico alla Chiesa con grande rispetto, alla scristianizzazione. Al contrario, la modernizzazione chiede ai cattolici di professare con più responsabilità la propria fede. Rende gli individui persone, le toglie dal guscio, le libera dalle false protezioni».E se qualcuno, come dice lei, stacca davvero la spina…?«Se qualcuno stacca la spina, e il governo andasse in crisi, la parola spetterebbe a… Già, a chi spetterebbe? Al presidente della Repubblica, come dice la costituzione formale? Al presidente del Consiglio, come dice la costituzione materiale, quella che ha consentito che il suo nome fosse stampato sulla scheda? O agli elettori, come dice la costituzione in itinere che è stata appena approvata dal Senato? Vede che c’è bisogno di riforme? In nessun altro paese nostro pari, una domanda tanto elementare come la sua riceverebbe tre risposte diverse».