Interviste

Intervista su “Il Sole-24 Ore”

La buona devolution salva lo stato e il governo

Il Sole-24 Ore, 11 settembre 2004

La “grande devoluzione” federalista (la cosiddetta riforma del Titolo V della Costituzione) fu approvata dal Parlamento a stretta maggioranza negli ultimi giorni della scorsa legislatura, nel silenzio pressoché totale di tutti, e fu poi sancita da un voto referendario anch’esso senza enfasi, al quale partecipò una minoranza di elettori. La “piccola devoluzione” federalista (o devolution, come il ministro Bossi la battezzò) sta invece assumendo proporzioni polemiche gigantesche. Non c’è da lamentarsene: le discussioni sono utili, perché consentono di fare un primo bilancio della riforma di tre anni fa o, come nel caso della richiesta di una maggiore riflessione avanzata dal Presidente di Confindustria, perché servono a correggere errori o colmare lacune.L’esperienza, la giurisprudenza, la dottrina e il dibattito politico hanno mostrato alcuni seri limiti e difetti della grande devoluzione. Ricordo quelli su cui più si è discusso, perché è su questi che si misura la sfida del federalismo, soprattutto adesso che la riforma è stata inserita in quella più ambiziosa della seconda parte della Costituzione.Primo. La grande devoluzione modificò la forma di stato ma lasciò inalterata la forma di governo. Ciò ha squilibrato i poteri. A fronte di presidenti regionali eletti direttamente, il governo centrale è rimasto di tipo parlamentare classico, soggetto agli stessi rischi di crisi e perciò di indebolimento dovuti a semplici movimenti di partiti, correnti e gruppi in Parlamento. Esattamente come negli scorsi cinquanta anni.Secondo. La grande devoluzione, con l’obiettivo enfatico di rafforzare il federalismo, introdusse una norma architettonica che dice: «la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato». Questa norma, che forse non ha effetti diretti, fornisce comunque l’immagine non di uno Stato che si articola, ma di uno Stato che si delocalizza, si sposta accanto, si trasferisce altrove.Terzo. Con la grande devoluzione è scomparsa dalla nostra Costituzione la tutela dell’interesse nazionale. È certo che questo, che è il più sovrano degli interessi, si ricava dal complesso dell’ordinamento, ma la sua eliminazione letterale non rende più chiaro chi ne sia il custode, mentre l’equiparazione dello Stato alle istituzioni regionali e locali, non rende di immediata percezione se, e perché, quella tutela superi le altre.Quarto. La grande devoluzione era molto generosa con i poteri legislativi delle regioni. Non solo su tutte le materie non comprese nell’elenco di esclusiva pertinenza dello Stato, ma anche su quelle cosiddette “concorrenti”, su cui cioè lo Stato deve definire i princìpi fondamentali e le regioni la parte sostanziale. Come è facile capire, entrambe e soprattutto le seconde sono pressoché indefinite, generiche e trasversali. Ciò ha provocato comprensibili gelosie istituzionali, inevitabili sovrapposizioni di competenze, e una mole impressionante di ricorsi alla Corte costituzionale (più di 200 in poco più di due anni). Con la conseguenza che la Corte, suo malgrado, è diventata il vero organo del federalismo.Quinto. La generosità della grande devoluzione si spingeva fino al punto di consentire a quelle regioni che lo avessero voluto e ne fossero finanziariamente attrezzate, di ottenere la competenza su materie anche di esclusiva pertinenza dello Stato, tra cui le norme generali dell’istruzione (e non l’organizzazione scolastica di cui ora parla la piccola devoluzione) e la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Con conseguenze assai rilevanti sulla unitarietà del nostro sistema educativo e sulla difesa del nostro patrimonio ambientale e artistico.Sesto. Generosa con le regioni, la grande devoluzione era invece avara con il Senato, di cui non era prevista la trasformazione in senso federale. Sì che è venuta a mancare quella istituzione di rappresentanza delle autonomie e di raccordo fra esse e lo Stato, indispensabile per prevenire conflitti e senza la quale la composizione delle varie esigenze resta affidata ad organismi extraparlamentari, come se si trattasse di un negoziato fra controparti ad un tavolo di trattative sindacali.Le conseguenze del federalismo della grande devoluzione si fanno sentire. È in gioco non solo la finanza pubblica (su cui non si hanno dati precisi), ma la certezza del diritto. Una legge, dello Stato o delle regioni, quando è veramente tale per i cittadini? Su una data materia, è lo Stato a decidere o sono le regioni? Dove si ferma l’uno e cominciano le altre? E il programma di un governo su grandi questioni di rilievo politico è salvaguardato oppure può essere bloccato dalle regioni? Onde una domanda che riguarda soprattutto il sistema delle imprese: si può programmare, investire, attrarre risorse, in uno Stato in cui il quadro istituzionale è confuso, il processo delle leggi complesso e lento, e la validità delle norme sovente sospesa per lungo tempo?Anche se la riflessione è utile, il federalismo non si può arrestare. Del resto, nessuno propone l’abrogazione del Titolo V. Si può correggere e completare, però. Ed è un segno confortante che su questo o quel difetto ci sia ormai una consapevolezza diffusa del bisogno di emendarli. La questione oggi è: la riforma in corso di esame è adeguata a questa indispensabile correzione?Limitandomi al solo federalismo, la mia risposta è che non lo è completamente. Alcune visibili incongruità sono state corrette. La forma di stato è ora integrata con la forma di governo del premier. Il Senato federale è stato previsto. La tutela dell’interesse nazionale è stata reintrodotta, sia pure in modo ancora non preciso. Le eventuali competenze alle regioni su materie esclusivamente statali sono state abrogate. Ma, federalismo fiscale a parte ancora rinviato, restano alcuni nodi da sciogliere.Il primo riguarda il lungo elenco sulle “materie concorrenti”, che sono tra le più litigiose, ma anche, in molti casi “Y vedi infrastrutture, energia, comunicazione “Y quelle più sensibili politicamente ed economicamente, perché su di esse si gioca la credibilità dei governi e la competitività del Paese.Il secondo è il processo legislativo. Se, soprattutto sulle materie concorrenti, l’ultima parola rimanesse al Senato, dove non c’è una precostituita maggioranza politica perché non è previsto il voto di fiducia, il governo non avrebbe strumenti cogenti per realizzare il proprio programma. E anche se la parola finale fosse paritaria, affidata sempre all’accordo Camera-Senato, il governo si troverebbe in difficoltà ad acquisire il consenso per i suoi disegni di legge. E le regioni, soprattutto perché non rappresentate in Senato, sarebbero comunque libere di ricorrere ogni volta alla Corte. Una contraddizione nel sistema, perché quella governabilità che si acquista col premierato si perde con i contropoteri del Senato e con le “mani libere” delle regioni.Questo è il terzo nodo. Il nuovo Senato federale, da un lato, rischia di diventare un’istituzione di blocco, e, dall’altro, di non essere federale a sufficienza, perché i senatori, eletti contestualmente ai deputati, restano comunque in carica per cinque anni e perché i presidenti delle giunte regionali non sono né presenti né rappresentati.C’è tempo per riflettere, e, se alla riforma non si sovrappongono obiettivi o disegni di altro tipo, questi e altri problemi possono essere facilmente risolti, con quell’ampio consenso che è opportuno raggiungere per evitare che il successivo referendum vada ancora deserto o diventi una guerra campale. Soprattutto i leader delle due coalizioni, i quali continuano a sperimentare sulla propria pelle le difficoltà della coesione delle alleanze, dovrebbero essere i primi interessati a che, divenuti premier, abbiano anche gli strumenti istituzionali per governare per l’intera legislatura. Esattamente come, da dieci anni, richiedono la “costituzione materiale” e le aspettative dei cittadini.

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