Pera: ormai vedeva l’azienda fuori dal tunnel
di Jacopo Iacoboni
La Stampa, 29 maggio 2004
L’ultimo incontro risale a tre mesi fa, a Palazzo Madama. «Umberto Agnelli mi era venuto a trovare e avevamo parlato a lungo, soprattutto della situazione della Fiat. Mi aveva raccontato i progressi dell’azienda in quell’anno difficile. Mi aveva spiegato che vedeva l’uscita dal tunnel vicina». Marcello Pera aveva stabilito con il presidente della Fiat un rapporto che presto è andato oltre la formalità istituzionale per approdare a qualcosa di molto vicino a una «affettuosa sintonia». Una sintonia fatta anche di «periodiche telefonate, fino alla fine».Presidente Pera, quando è stato l’ultimo suo incontro con il presidente della Fiat?«È successo direi tre mesi fa, a Palazzo Madama, dopo un periodo in cui i nostri legami si erano fatti più stretti. Avevamo familiarizzato assai, Umberto era un uomo con il quale scoprivo ogni giorno maggiore sintonia. Ci siamo incontrati tante volte, ricordo per esempio una cena simpatica l’anno scorso, al Praemium imperiale, anche con le rispettive mogli. Era un uomo col quale si poteva parlare di tutto».L’ultima volta che l’ha visto le è sembrato più fiducioso rispetto a un anno fa sulle sorti dell’azienda che aveva preso in mano?«Mi disse che vedeva la fine del tunnel ormai prossima. Disse che a quell’ottimismo lo autorizzavano i primi risultati del lavoro di Morchio. Io gli ricordai qual era stato un po’ il suo destino: lui non era l’uomo della Fiat ma l’uomo della finanza, e invece proprio a lui era toccato il compito imdustriale più difficile. Si era assunto questa missione dimostrando grande coraggio, innanzitutto, e senso di responsabilità. Forse in quel progetto, anni prima, non aveva completamente creduto. Di certo quando è servito ci si è dedicato con tutta la sua competenza».Un anno fa eravate andati insieme a Camporlecchio, Siena, assieme a D’Alema che lanciava un suo think tank. In quell’occasione Umberto Agnelli aveva espresso un desiderio: che i poli la smettessero di farsi la guerra. Auspicava un’Italia meno conflittuale e lacerata. Un suo tema, no?«Quella volta Umberto parlò di due cose. La prima è che non capiva un Paese in guerra politica perenne, e si rifiutava di stare da una parte o dall’altra di questa polemica che c’era allora e c’è purtroppo ancora oggi. La seconda è che Umberto aveva compreso i problemi e la sfida della modernità, parlando con me si era detto d’accordo con il discorso tenuto dal fratello Gianni in Senato sulla globalizzazione. Ecco, credo che in questa sfida modernizzatrice, anche al timone dell’azienda, avesse riversato tutta la sua filosofia».Parlavate di Europa e Usa? Quel giorno Agnelli disse che il problema della leadership «è un dibattito che si pone in tutte le grandi capitali, compresa quella americana», ma aggiunse anche che gli Stati Uniti non vogliono essere più i soli gendarmi del mondo».«L’Europa per lui era un processo irreversibile, e l’integrazione una battaglia da vincere senza tentennamenti. Quanto agli Usa, certo avvertiva che le responsabilità del comando globale devono essere condivise. Ma è sempre rimasto un uomo profondamente e fondamentalmente americano».Come suo fratello Gianni, dal quale peraltro lo separavano altri tratti. In che cosa si assomigliavano, e in cosa le sono sembrati diversi?«Forse in Umberto si coglieva una maggiore spontaneità e una minore timidezza. L’Avvocato era più timido e al tempo stesso più riservato. Ma su questo può anche pesare la familiarità che si era stabilita con Umberto, con il quale era piacevole parlare di tutto, anche di arte. Quella sera a Roma restammo a chiacchierare a lungo di scultura moderna: ne trattava da esperto, come se stesse discutendo della struttura di una holding».