Interventi

L’Europa e il terrorismo

Gubbio, 11 settembre 2004

 

Seminario di Forza Italia

1. La guerra del terrorismo islamico

Il tema principale del mio intervento è dettato dal calendario. Ma, anche se non ci fosse stata questa data dell’11 settembre, avrei ugualmente deciso di richiamare la mia e nostra attenzione soprattutto sulla questione del terrorismo e dell’Europa, perché è una questione cruciale da cui dipende il nostro futuro.

Tre anni fa, con l’attentato alle Torri gemelle di New York e al Pentagono, il terrorismo islamico rendeva palese a tutto il mondo, attraverso un atto di inaudita violenza, la sua intenzione di portare l’attacco all’Occidente e alla società libera. La guerra “Y perché di guerra si trattava, più precisamente di jihad “Y era dichiarata e praticata in nome di un’ideologia oscurantista e nichilista, la quale proclama la sharia, cioè la fusione fra legge coranica e legge civile, esalta la morte e il martirio, uccide in modo barbaro e sacrificale, individua come nemici da abbattere la nostra tradizione giudaico-cristiana, cioè in primo luogo Israele, l’America, l’Europa.

I nemici dichiarati dei terroristi islamici sono due: l’Occidente, ai loro occhi degenere e degradato, e quel mondo musulmano che invece con l’Occidente indende intrattenere rapporti di convivenza e di scambio, e che perciò, sempre ai loro occhi, è connivente e colpevole. Nel quadro di questa visione fanatica, il secondo nemico è strumentale al primo. Perché se le leadership dei paesi islamici e arabi fossero abbattutte e le masse musulmane si sollevassero, allora esse imbraccerebbero le armi per portare la guerra santa all’Occidente.

L’attacco di tre anni fa fu seguìto da altri. Dopo New York e Washington è toccato a Madrid, Beslan, Bali, Casablanca, Ankara, a centri dell’Arabia Saudita, del Pakistan, a Giakarta, e altrove. Ma ebbe anche precedenti che non furono meno gravi solo perché furono sottorappresentati: nel febbario 1993 ancora al World Trade Center, nel 1998 alle ambasciate americane a Nairobi e Dar es Salam, nell’ottrobre del 2000 alla nave “Cole” nel porto di Aden.

Insomma, la guerra santa contro l’Occidente dura da più di dieci anni. E tutti dicono che durerà ancora molto tempo. E però dieci anni di terrorismo, un numero imprecisato di attentati e morti, un futuro di insicurezza non sono ancora bastati all’Occidente che si è diviso quasi su ogni punto. Si è diviso sull’analisi del fenomeno, sui modi di fronteggiarlo, sulla guerra in Iraq, sul dopoguerra. E ciò mentre il terrorismo si rafforza, si espande e ricorre a qualunque mezzo, compreso la cattura di ostaggi e la loro uccisione, pur di fiaccare l’Occidente. Proprio in questi giorni, il numero due di Al Qaeda, Ayman Al Zawahiri, ha detto che ormai l’America è in una trappola e la guerra santa vincerà.

Non è, e non sarà, così, naturalmente. Ma c’è da sollevare due domande. Primo, che cosa sta facendo l’Occidente e soprattutto l’Europa per scongiurare questo scenario? Secondo, perché soprattutto l’Europa è divisa?

2. L’Occidente inerte

Circa la prima domanda, limitiamoci agli eventi più recenti.

Dopo tante controversie sull’intervento in Iraq e un veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu, finalmente un’unità si è trovata. La Risoluzione 1546 del Consiglio di Sicurezza, adottata all’unanimità, ha rivolto a tutti un appello alla mobilitazione delle forze per aiutare l’Iraq. Letteralmente, al punto 15, essa dice che il Consiglio «richiede agli Stati membri e alle organizzazioni internazionali e regionali di recare assistenza alla forza multinazionale, incluse le forze militari, come convenuto con il Governo dell’Iraq, per soddisfare i bisogni del popolo iracheno di sicurezza e stabilità, di assistenza umanitaria e di ricostruzione, e di sostenere gli sforzi della missione civile di assistenza delle Nazioni Unite».

Il percorso tracciato è chiaro. Governo provvisorio insediato dalle stesse Nazioni Unite. Elezioni entro gennaio dell’Assemblea Costituente. Redazione della Costituzione. Referendum.Elezioni politiche entro il 2005.

Che ne è stato di questo richiamo? Quasi nulla. La stessa missione civile dell’Onu prima si è ritirata poi, dopo l’assassinio del suo rappresentante De Mello, è tornata con un gruppo esiguo di osservatori. La coalizione dei volenterosi è rimasta la stessa o si è ridimensionata, perché alcuni paesi, come la Spagna dopo il massacro di Madrid, e le Filippine dopo l’uccisione di ostaggi, hanno ritirato le loro truppe. Insomma, l’appello è stato lettera morta. E la divisione politica resta. C’è chi si giustifica dietro l’insicurezza e la violenza presenti in Iraq. C’è chi si nasconde dietro pretesti per propri fini nazionali o egemonici. C’è chi cede ai ricatti. C’è forse chi ancora semplicemente spera che lo sforzo di ricostruzione dell’Iraq non abbia successo.

 

3. L’Europa impaurita

Soprattutto l’Europa non ha compreso. Dopo aver tanto invocato l’Onu, quando l’Onu si è mossa l’Europa non ha fatto un passo. Dopo la Risoluzione 1546, ci fu un coro di consensi. Da parte francese si sottolineò con compiacimento il ritorno al diritto internazionale. Da parte tedesca si auspicò che essa segnasse l’inizio della stabilizzazione dell’Iraq. Il Consiglio europeo approvò un documento in cui si esprimeva sostegno alla Risoluzione, compresa «l’autorizzazione di una forza multinazionale». La Commissione europea dichiarò che la Risoluzione sanciva un ruolo centrale dell’Onu che avrebbe aperto il campo a un intervento dell’Unione Europea nel Paese, e sottolineò che «è indispensabile il successo della transizione politica per creare una democrazia pluralista».

Insensibile alla prima tanto invocata legittimazione dell’Onu, l’Europa è stata insensibile anche ai richiami del premier iracheno Allawi insediato dall’Onu. Il 7 giugno Allawi invocava dalle pagine dei giornali l’aiuto della comunità internazionale. Il 22 giugno chiese ai leader arabi riuniti al Cairo di assistere l’Iraq. Il 29 luglio, a Gedda, affermò: «questa è una guerra globale. Queste sono forze del male che agiscono contro di noi. Chiedo ai leader dei paesi islamici e ai paesi arabi di serrare le fila». Il 30 agosto, in un’intervista ad un giornale italiano, ha nuovamente invocato l’intervento dell’Europa.

Parole nel deserto, come se la questione non ci riguardasse o riguardasse solo gli americani o non riguardasse neppure più gli americani, ove cambiasse l’amministrazione.

Invece, non è così. L’Iraq oggi è il terreno principale di scontro del terrorismo islamico. Per i terroristi, è il fronte della guerra santa. Per noi occidentali è la frontiera della resistenza alla guerra santa. Perdere in Iraq vuol dire abbandonare un paese al fondamentalismo, consegnare il suo popolo ad una dittatura teocratica, destabilizzare un’intera area strategica, aggravare, non risolvere, il conflitto israelo-palestinese. Insomma, una sconfitta amara e tragica per noi e per lo stesso mondo arabo.

Io credo che l’Europa dovrebbe reagire, dovrebbe respingere i ricatti, dovrebbe allontanare la lusinga umiliante, che è un’altra arma dei terroristi, di farsi dividere fra buoni e cattivi, amici e ostili, moderati e radicali, dovrebbe dimostrarsi unita a sé e fra sé e l’America contro il terrorismo, e non soltanto nel ripudio verbale della violenza, non soltanto nella espressione dei sentimenti di condanna, esecrazione, cordoglio, ma nelle misure politiche e nelle azioni concrete.

Io credo che l’Europa non dovrebbe ritirarsi dall’Iraq, ma rispettando quella Risoluzione dell’Onu che essa stessa ha invocato e approvato, presentarsi tutta insieme in Iraq. Non certo per fare la guerra a quel paese ora che, al posto di un dittatore spietato, ha un premier voluto dall’Onu, dall’Europa e dagli arabi, ma per portargli ricostruzione, assistenza, e transizione alla libertà. E per sconfiggere lì, sul campo, il terrorismo, non solo qui sui giornali, alle televisioni, alle manifestazioni, peraltro nobili e lodevoli ma ancora sparuto al confronto di quelle pacifisgte dello scorso anno.

Io credo infine che se l’Europa facesse questo, se convocasse un Consiglio europeo ad hoc, se mettesse fra le sue priorità l’obiettivo di pacificare e ricostruire l’Iraq, se muovesse tutte le sue potenzialità “Y da quelle diplomatiche a quelle economiche a quelle culturali a quelle militari “Y il terrorismo subirebbe una grave sconfitta ed avrebbe maggiori difficoltà ad espandersi. Perché, allora, l’Europa, con l’eccezione dell’Inghilterra, dell’Italia, della Polonia e di pochi altri paesi, non si muove?

Perché l’Europa, io credo, ha una convinzione e una paura.

La convinzione è che la pace sia un bene che vale qualunque cosa. Ma è una convinzione sbagliata. Perché la pace non è mai data ma sempre conquistata. E perché ci sono circostanze della storia in cui la conquista della pace costa sacrifici. L’Europa che, a causa dei suoi mostri, ha partorito due guerre mondiali dovrebbe essere la prima a saperlo.

La paura, io temo, è quella che si chiama “guerra di civiltà”. Ma è una paura infondata. Riflettiamo su questo punto. Noi non siamo i soldati di una guerra di civiltà, siamo il bersaglio di una guerra santa. Non dobbiamo fare alcuna guerra, dobbiamo difenderci da una guerra. E quanto alla democrazia e alle nostre libertà che siamo accusati di voler esportare, noi non imponiamo niente con le armi, lavoriamo affinché quei diritti, che sono reclamati dagli stessi islamici e arabi, e che per noi, come per loro, hanno pretesa universale, si affermino in tutto il mondo.

Qui “Y su questa pretesa universale dei diritti, valori, istituzioni della nostra civiltà liberale, democratica, sociale “Y sta forse la soluzione del rebus che paralizza la mente e la mano dell’Europa. L’Europa non ha più fede in sé. Non ritiene più di avere una identità propria da proclamare e difendere. Il rifiuto del richiamo alle radici cristiane nel Preambolo del Trattato costituzionale è più grave e sintomatico di quanto si creda. Quel rifiuto significa una mancanza di fede, un oblio di quei genitori “Y la Grecia classica, il giudaismo, il cristianesimo “Y che sono stati esigenti e che ora, se evocati, richiederebbero altrettanta determinazione.

L’Europa questa determinazione e consapevolezza di sé sembra non sopportarla più. Neppure i credenti cristiani europei sembrano possederla. Infiltrata da relativismo culturale, investita da multiculturalismo occasionale, soddisfatta del suo benessere, affetta da “angelismo”, come l’ha definito il leader della Catalogna Jordi Pujol, questa Europa invoca la tolleranza e dimentica che la tolleranza comincia con la reciprocità. Chiede il rispetto e non comprende che il primo rispetto è quello di sé. Propone il dialogo e non capisce che il dialogo non è possibile se l’interlocutore usa le armi in luogo degli argomenti.

Credo che sia giunta l’ora di richiamarci tutti all’amara realtà. Stiamo vivendo giorni angoscianti per il rapimento a Bagdad di due generose italiane impegnate in un’opera umanitaria. È un bene prezioso che, di fronte a questo ennesimo ricatto del terrorismo, il governo, tutte le forze politiche, tutti gli italiani, i principali rappresentanti delle comunità islamiche abbiano messo da parte le loro divisisoni e si siano uniti per chiedere e operare per la loro liberazione. È altrettanto importante che si rifletta e si agisca per combattere il terrorismo, stringendo le fila, con un patto, un’alleanza di tutta l’Europa e di tutto l’Occidente.

 

 

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